“L’ufficiale e la Spia”, Polanski ricostruisce un mondo che ci appartiene ancora

by Gabriella Longo

Una piazza sconfinata sotto un cielo cupo, una compagine ordinata di uomini dell’esercito francese, e i dettagli rossi delle loro divise che squarciano il lividore di una giornata d’esecuzione. La camera segue il passo in marcia di un drappello, fra cui c’è Alfred Dreyfus, che di lì a poco avrebbe subito l’umiliazione di essere spogliato di tutti i decori militari, col benestare del popolino francese riversatosi nello spazio esterno dell’École Militaire per urlare un liberatorio “morte all’ebreo!”. L’America avrebbe capito dopo La guerra dei mondi l’oscurità che si cela nel potere dei media; similarmente l’Affaire Dreyfus- anch’esso costruito su una fake news– spiegò alla Francia come e dove nasceva l’antisemitismo.

È per questo allora che un film merita d’essere visto, al di là dell’inquisizione che parallelamente, e per un grottesco tempismo, ha puntato il dito contro il suo autore, riaccendendo il faro su una nuova accusa di stupro denunciata alla vigilia dell’uscita francese de L’ufficiale e la Spia. C’è chi non riesce a separare l’artista dalla persona, e si premura di non applaudire a Venezia il film di Polanski, ma a questo processo, nel quale rischia di restare immischiato lo spettatore, dobbiamo invocare il diritto a tenere il dito abbassato, in nome dell’unica cosa certa ed oggettiva che conosciamo: l’arte (e il suo valore). L’arte, in questo caso, vince non perché J’accuse (così si chiama il film nel suo titolo originale) sembra parlare di Polanski, il quale dal caso di Sharon Tate riesce a trovare un po’ di pace soltanto nel salvifico finale che gli ha destinato il collega Tarantino in C’era una volta a Hollywood. E non solo perché ci viene da pensare che “morte all’ebreo” deve esserselo sentito proprio dentro le ossa, Polanski. Ma perché con un’eleganza maniacalmente vicina alla pittura, ed una precisione documentaristica assoluta, riesce a ricostruire un mondo che ci appartiene ancora, nel quale non facciamo fatica a ritrovarci, dominato dalla corruzione, dalla paura dell’altro, dalla maestria del boicottaggio, e dall’omertà; così uno dei casi più famosi della storia continua a ripetersi all’infinito, quotidianamente, e nel quale di volta in volta cambiano esclusivamente gli interpreti.

È per questo che un film merita d’essere visto, al di là che ci si possa arrabbiare dell’ennesima volta che un titolo viene tradotto male in Italia: un più efficace J’accuse (che a sua volta richiamava la lettera pro Dreyfus scritta da Emile Zola e consegnata alle pagine de L’Aurore) perde di potenza riciclandosi in un più generico L’Ufficiale e la Spia, perché il nostro paese, si sa, lascia alla Francia il compito di fare le rivoluzioni. Eppure credo che anche il titolo italiano non sia da bistrattare, ma ne vada approfondito il senso. Immediatamente ci viene da pensare che l’ufficiale sia George Piquart (Jean Dujardin), responsabile del controspionaggio militare e colonnello dell’esercito francese che si occupò – a sue spese – di demolire il castello di prove fasulle a carico di Dreyfus, accusato ingiustamente, di passare informazioni alle potenze nemiche e di essere dunque “la spia”. Che le cose fossero ben diverse, questo è fatto noto, ma restituire la complessità del caso, questo è compito da maestri, soprattutto se poi, si guardano i fatti da un punto di vista non-convenzionale.

Dopotutto, che cos’è la regia se non un punto di vista? A quello di Dreyfus, il quale resta letteralmente in esilio per quasi tutto l’arco temporale del film, Polanski preferisce il punto di vista di Picard, l’ufficiale che avrebbe pagato a caro prezzo la scelta di schierarsi dalla parte del suo ex allievo militare, difendendone l’innocenza. Lo seguiamo, dunque, durante tutto il corso di una indagine frenetica, serrata, nella quale si smettono di contare le volte in cui cartelline, armadietti pieni di carte, fotografie, faldoni di documenti, vengono aperti e richiusi senza sosta. La carta (canta) è ancora sinonimo di autorevolezza, e allora tutto inizia e finisce con fogli e foglietti, analizzati e studiati sino allo sfinimento, compresa la calligrafia sul famoso borderau rinvenuto appunto da Picard e che, stando alla testimonianza giurata del grafologo, sarebbe stato scritto da Dreyfus, attribuendogli così in via definitiva, l’attività di spionaggio a favore dei tedeschi. Ma qualcosa è chiaro che sfugga, e allora la ricerca s’infittisce, si fa sempre più archivistica, sempre più archeologica… sempre più sporca. E Picard, che sin dall’arrivo nel nuovo ufficio si accorge subito di essere venuto per restare chiuso in gabbia (lo vediamo più di una volta tentare di aprire senza successo la finestra), non è molto diverso da Dreyfus priogioniero in quel posto dimenticato da dio che è l’Isola del Diavolo.

Allora qui torniamo al titolo italiano: di quale ufficiale, di quale spia parliamo? Scopriamo, ben presto, che il mondo è marcio, e c’è una spia in ogni angolo, mica soltanto una. C’è una misteriosa donna che lascia puntualmente pacchi di lettere in una chiesa, affinché il responsabile delle indagini se ne appropri senza destare sospetti, c’è un sottoposto di Picard che gli promette (senza mantenere la promessa) di non confidare certe informazioni al Comandante Joseph Henry (Grégory Gadebois) del quale chiaramente il colonnello non si fida, c’è la vera spia, quella che dovrebbe essere condannata al posto di Dreyfus, ma che è per una qualche ragione ancora a piede libero, ci sono i mille occhi e orecchie che guardano e ascoltano, e poi remano contro la giusta indagine di Picard, è tutto un detto-non detto, un continuo scivolare nella clandestinità.È per questo che l’Ufficiale e la Spia merita di essere visto: perché la traduzione italiana non sarà potente quanto quel verbo coniugato alla prima persona del presente, ma restituisce l’idea di come la non ufficialità, sia stata l’arma di un manipolo di questurini evidentemente amanti del sussurro. “Non vogliamo un altro caso Dreyfus”, commenta qualcuno nel film, marcando l’assoluta necessità di chiudere il caso in fretta e furia, e facendo così di un ebreo il capro espiatorio perfetto.

Eppure quel fatto accaduto alla fine dell’Ottocento, sarebbe stato solo l’inizio. Di una serie di innumerevoli e ripetuti casi Dreyfus.

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