Moonage Daydream, il film documentario su David Bowie, arriva su Amazon Prime dopo il successo mondiale al cinema

by Claudio Botta

Nelle sole sale italiane, lo scorso anno nei tre giorni di uscita come film-evento ha incassato 96mila euro al debutto lunedì 26 settembre (11mila gli spettatori complessivi), 132.614 euro il giorno successivo (maggiore incasso assoluto con una media di 460 spettatori per sala, superando anche Avatar di James Cameron) e ulteriori 156.601 euro l’ultimo giorno di proiezione (sempre al primo posto negli incassi di giornata, con la media di 563 spettatori per sala altissima per il periodo, la collocazione infrasettimanale e due sole proiezioni giornaliere), superando quindi la soglia dei 400mila euro. Alla fine di dicembre, il sito web statunitense BoxOfficeMojo, di proprietà di Amazon e autorevolissima fonte per la comunicazione dei dati ufficiali al botteghino a livello planetario, ha fornito l’incredibile cifra di 12,2 milioni di dollari raccolti, un record per un documentario, dai giorni di proiezione limitati e con le sale alle prese con la crisi post-pandemia e la concorrenza feroce delle piattaforme e dello streaming. Un’ulteriore conferma che, a sette anni dalla scomparsa che ha scioccato il mondo, David Bowie continua a essere vivo nella memoria dei suoi fans di ogni età, generazione, estrazione; e Moonage Daydream rappresenta un’immersione totale nella sua arte, nelle sue infinite sfumature e nelle sue riflessioni mai banali, sempre spiazzanti e spalancate su nuovi orizzonti, pienamente all’altezza delle aspettative e delle attese.

Il regista statunitense Brett Morgen (porta la sua firma anche lo splendido documentario Kurt Cobain: Montage of Heck) è riuscito ad ottenere dai familiari della rockstar inglese quello che non era mai stato permesso a nessun altro (compreso Danny Boyle, il regista cult di Trainspotting che per Bowie ha una vera e propria venerazione): l’accesso esclusivo allo sterminato archivio personale, contenente cinque milioni di filmati e registrazioni inedite,  che hanno richiesto cinque anni di lavoro solo per essere visti e selezionati per un lavoro che non voleva essere un documentario tradizionale, con interviste a chi lo aveva conosciuto legate da immagini d’epoca, ma un viaggio in un mondo affascinante e complesso, un’esperienza esaustiva ed intima che mostra ancora una volta la profondità dell’impatto che Bowie ha avuto sulla musica, sul cinema, sul teatro, sulla moda (è stato gender fluid nei primi anni Settanta, quando non esisteva nemmeno la definizione, indicando a milioni di adolescenti e adulti la direzione verso la libertà sessuale e la consapevole accettazione e affermazione di se stessi), sul costume, sull’arte in ogni sua espressione e percezione, sulla società.

Voce narrante – spesso fuori campo – la stessa star («Raccontare Bowie era difficile perché è impossibile descriverlo, lui va semplicemente vissuto ed è quello che ho cercato di fare attraverso questo film», le parole di Morgen a Cannes, durante la primissima presentazione mondiale per il Festival), le immagini in bianco e nero dell’infanzia a Brixton, nella periferia londinese (dove oggi, all’uscita della metro, è ben visibile un murales a lui dedicato quotidiana meta di un pellegrinaggio silenzioso, composto e commosso), e il caleidoscopio frenetico di tante (non tutte, sarebbe stato impossibile) metamorfosi vissute in una vita straordinaria.  La citazione iniziale di Nietzsche sul senso dell’esistenza: «Tutte le persone, non ha importanza chi siano, sperano di apprezzare di più la vita, ma è cosa fai nella vita che è importante e non quanto tempo hai o cosa desideravi fare. La vita è fantastica», una successiva riflessione sul tempo, «una delle espressioni più complesse che la memoria abbia reso manifeste, qualcosa a cavallo tra passato e futuro, senza mai essere del tutto presente. Ti trovi a lottare per comprendere quel mistero profondo e formidabile. Tutto è transitorio», un’astronave lanciata alla velocità della luce sulle note di Hallo Spaceboy (1995) e inizia un’esperienza incredibile, tra immagini, pensieri, parole, suoni, canzoni, video coinvolgenti e travolgenti. L’unico punto di vista del protagonista – e non quello di amici e compagni di avventura – e  continui salti temporali, non necessariamente in ordine cronologico, fanno emergere anche le tante contraddizioni, sulla percezione dell’amore per esempio, non considerato centrale fino all’arrivo della modella somala Iman, che ha sposato prima in Svizzera e poi a Firenze e che gli è stata accanto fino alla fine dei suoi giorni: ma Bowie è stato il profeta dei ‘Changes’, dei cambiamenti necessari per trovare continuamente nuovi stimoli e motivazioni; e il montaggio frenetico, martellante, possono produrre nello spettatore un iniziale disorientamento, ma la narrazione nell’arco dei 240 minuti procede sempre più avvincente, e la testimonianza conclusiva («Alla fine, se devo trovare in tutto quello che ho fatto una linea, è questa: riflettere il caos, tentare di organizzarlo») dà senso a tutto.

Ampio spazio viene riservato al periodo glam, dove emerge il contrasto tra la sua voglia di spazzare via convenzioni e steccati e la rigidità dell’epoca incarnata dai conduttori televisivi che lo intervistavano, la diffidenza cancellata dall’ironia. Gli anni nell’odiata Los Angeles, segnati dalla dipendenza da cocaina e alienazione/allucinazione vissute comunque come tappa di evoluzione e crescita, anche se spinta fino all’orlo del precipizio. La disintossicazione e rinascita a Berlino (e lo spezzone inedito più emozionante e toccante, una bellissima versione di Heroes in concerto, assolutamente imperdibile), il ritorno trionfale in Inghilterra, il successo mondiale negli anni Ottanta e i tour (Serious Moonlight, Glass Spider) dalle folle oceaniche, gli anni Novanta all’insegna di nuove sfide. La parte cinematografica, i film che lo hanno ispirato e formato e quelli nei quali ha lasciato il segno da protagonista. Fantastica la selezione musicale, curata da Tony Visconti, il suo storico produttore e partner in crime dagli inizi fino a Blackstar, lo struggente congedo pubblicato due giorni prima della morte, Paul Massey, sound mixer Premio Oscar per Bohemian Rapsody e David Gianmarco, e i sound designer John Warhurst e Nina Hartstone, anche loro all’opera col biopic di Freddie Mercury. 48 canzoni, tra gli immortali classici e rarità particolarmente apprezzate dai fans storici: una colonna sonora che ha riscosso un grande successo di vendita nei formati tradizionali, vinile e cd.

Moonage daydream è quindi un prezioso regalo, adesso visibile anche su Amazon Prime (fin troppo facile prevedere altri record, stavolta nello streaming). Impossibile restare indifferenti, durante e dopo la visione. E non riflettere sulle parole – prima ancora che sulle opere – di un uomo che, al termine di ogni giornata, si interrogava su quello che era riuscito ad apprendere in quella giornata, per cercare di migliorarsi. Un artista che aveva anche l’hobby della pittura (e per la prima volta è possibile vedere il suo studio e la sua tecnica), ma il cui più grande capolavoro, tra centinaia, è stato essere sempre e solo sé stesso.

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