Quella notte a Miami…, l’esordio alla regia di Regina King sul movimento afroamericano per i diritti civili anni ’60 che punta dritto agli Oscar

by Nicola Signorile

Ci sono modi diversi per sostenere una causa? La militanza è l’unica via possibile? Le domande messe in campo da Quella notte a Miami… (One night in Miami…), esordio alla regia cinematografica di Regina King (disponibile su Amazon Prime Video) sono moltissime, di grande interesse e di eccezionale attualità.

L’incontro notturno tra quattro amici in un motel di Miami è lo spunto, in parte fittizio, per una seduta di auto-terapia che tira in ballo la comunità afroamericana e il movimento per i diritti civili degli anni ’60. Avrebbe dovuto essere una notte di festeggiamenti. Cassius Clay (Eli Goree), la sera del 25  febbraio 1964, a soli 22 anni, diventa campione del mondo dei pesi massimi, il suo avversario Sonny Liston getta la spugna alla settima ripresa.

Nelle prime file ad applaudirlo ci sono i suoi “fratelli”, altre tre celebrità dell’epoca: il cantante soul Sam Cooke (Leslie Odom Jr), il campione di football Jim Brown (Aldis Hodge) e l’attivista Malcolm X (Kingsley Ben-Adir). Sport e musica sono gli unici campi in cui è loro concesso il successo. Come impiegare il potere che ne deriva per avere un impatto sulle condizioni di vita della loro gente? Ognuno dei quattro ragazzi cerca di farlo a proprio modo, seguendo strade personali e molto differenti. Intorno a questo interrogativo si snoda tutta la conversazione tra i quattro, che, tra prese in giro delle rigidità di Malcolm X, recriminazioni reciproche, esplosioni d’orgoglio e momenti più intimisti, diventa una lente in cui può specchiarsi chi oggi lotta contro le discriminazioni razziali nel movimento Black Lives Matter.

Quella notte a Miami è ambientato nel 1965. Molte questioni restano irrisolte e l’impegno dei personaggi pubblici per la causa afroamericana è più importante che mai. Regina King è prima di tutto una grande attrice, già vincitrice di Emmy e dell’Oscar nel 2019 per Se la strada potesse parlare.

La sua vigilante mascherata Sorella Notte nella miniserie HBO Watchmen è già nella storia della televisione. Dopo aver diretto vari episodi di popolari serie (Scandal, Shameless, This is us), debutta al cinema con l’adattamento dell’omonima pièce teatrale di Kemp Powers, sceneggiatore del film (e del nuovo Disney Pixar, Soul). L’impianto teatrale resta. A parte qualche sortita all’aperto e il prologo che segue i quattro personaggi separatamente, un anno prima, in momenti più o meno significativi delle rispettive vite, il centro della narrazione è la squallida stanza di motel in cui Malcolm X accoglie gli amici in vena di far festa. Niente donne e alcool come avrebbero preferito Cooke e Brown, ma sotto sotto anche Clay, il quale sta per aderire, con non poche perplessità, alla Nation of Islam. È il tempo delle scelte radicali, di stare da una parte o dall’altra, per il 40enne leader del movimento, inviso tanto agli americani caucasici, quanto agli afroamericani pacifisti seguaci di Martin Luther King. Per lui i bianchi sono “demoni” e vanno combattuti “con ogni mezzo necessario”: diventa controproducente anche stargli troppo vicino.

C’è un misto di ammirazione e repulsione nei confronti dell’amico leader spirituale e politico che vede il successo degli altri tre come un’arma per far vincere la causa. La regia di Regina King si mette totalmente al servizio dei quattro interpreti, lasciando loro lo spazio per esprimere la propria visione, per (di)mostrare che si può giungere allo stesso risultato – l’affermazione di sé in un contesto imperniato sull’esclusione e l’affrancamento dal dominante potere bianco  – battendo strade diverse. Il film non ha un ritmo uniforme, sfiora il già visto e sentito più volte, alterna pennellate retoriche a sequenze più riuscite, come l’intenso momento di preghiera di Clay e Malcolm prima dell’incontro o il confronto dei due campioni sportivi con la giovane guardia del corpo, in cui la scelta di aderire alla Nazione dell’Islam si rivela per quello che è davvero: un atto di difesa, “ma non serve una religione per difendersi, basta una gang”, ribatte Jim Brown, “e che differenza c’è”, risponde il ragazzo.

Il dramma da camera – di sicuro tra le pellicole più quotate per le nomination agli Oscar più inclusivi della storia – ha tuttavia il merito di mostrare una comunità sfaccettata, disunita, che fatica spesso a trovare un terreno condiviso. L’obiettivo comune è non poter solo “mangiare una fetta di torta ma di averne la ricetta”. Cassius Clay a 22 anni non è ancora diventato Mohammed Alì, ha i suoi dubbi sul diventare musulmano, gonfia il petto, spaccone, e si gode la cintura di campione del mondo; Malcolm riflette sulle contraddizioni della nazione che ha contribuito a formare, sta per lasciarla per creare un nuovo movimento e vorrebbe fare di Clay l’uomo copertina (cos’è questo se non marketing?), sul volto di Kingsley Ben-Adir leggiamo tutto il peso di una vita passata in trincea, il fardello della militanza. Il carismatico Brown combatte la sua battaglia personale attraverso il suo talento, è in cerca di rivincite, il football l’ha portato in cielo, ma il suo futuro sarà il cinema, “fa meno male alle mie ginocchia”.  Il dialogo tra i due sportivi ancora una volta mette in campo due pensieri antipodici, per il running back sono  entrambi “gladiatori che si esibiscono davanti a un sovrano che fa su e giù con il pollice, io non voglio più nessuno sovrano”, “Io voglio ballare e combattere finché sarò diventato vecchio” replica un irrefrenabile Cassius Clay.

Ma il confronto più acceso è tra la radicalità di Malcolm X e la moderazione di Sam Cooke, impegnato a scalare le classifiche con la sua voce di velluto, a conquistare il favore dei bianchi (il prologo ce lo mostra al Copacabana davanti a un pubblico indignato dalla sua presenza sul palco). La musica è un veicolo potente, il più potente, ne è ben consapevole l’attivista. Perché Cooke dal suo punto di vista è un “negro borghese” che non usa il suo dono per la causa dei neri. La lotta fa male agli affari. C’è un altro modo di fare le cose. Raggiungere il successo, detenere i diritti della propria musica, produrre e lanciare i talenti della comunità. Non l’ha mai fatto nessuno prima di Cooke. Per Malcolm questo non basta, sta sprecando il suo di talento per “fare la scimmietta” per i bianchi. Posizioni inconciliabili? Forse. C’è l’esempio di Bob Dylan e di Blowing in the wind a imbarazzare il soul man: con parole e musica si può salire più in alto, un ragazzo del Minnesota ci è riuscito.

 Sarà un’ispirazione per Cooke che nel finale, durante un talk show di prima serata, canta emozionato la sua A Change Is Gonna Come, che diventerà un inno del movimento per i diritti civili. Ma sin dall’inizio, sul quartetto aleggia un che di sinistro, si avvertono le avvisaglie del compiersi di un destino malevolo. Presi per paranoie, i timori del giovane leader – costantemente sorvegliato dall’Fbi e scortato da guardie del corpo – si riveleranno giustificati: sarà assassinato, un anno dopo, durante un discorso pubblico ad Harlem, all’età di 39 anni, con sette colpi di arma da fuoco, come ricordano le scritte finali. Che purtroppo dimenticano l’analoga morte di Sam Cooke, a pochi mesi di distanza, ucciso a 33 anni in circostanze poco chiare.

Regina King

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