Rififi, la nascita dell’heist movie nel capolavoro di Jules Dassin

by Giuseppe Procino

È una fotografia della violenza che anticipa a tratti la lezione di Harold Pinter, Rififi, una pellicola che ricorre alla struttura del racconto classico, una sorta di “viaggio dell’eroe” nel mondo del crimine in cui lo scioglimento della tensione narrativa è affidato al nichilismo più estremo. Un film crudelmente attraente, ammaliante, in grado di tenere viva l’attenzione sino all’ultimo istante.

Dassin agisce in un clima di ampio respiro espressivo concedendosi licenze tecniche che offrono al racconto una carica emotiva che ancora oggi resta insuperata. In questo capolavoro indiscusso del cinema francese, il regista statunitense gioca con il mezzo cinematografico, plasmandolo a seconda delle situazioni. Questa mancanza di una vera coerenza tecnica che conosce come costante solo la fotografia si rivela efficace trasformando la pellicola di Jules Dassin in una lezione sulla direzione cinematografica che deve essere funzionale alla storia.

Il plot narrativo è abbastanza semplice: una rapina, o meglio un furto di gioielli, il tutto organizzato a regola d’arte da una banda di relitti sociali, guidati da Tony detto “il Laureato” uscito in anticipo dalla prigione e in cerca del traditore che lo ha incastrato. Attorno a lui personaggi che rispecchiano la mancata integrazione frutto di uno Stato diseguale, più che altro immigrati che appartengono a comunità che hanno fatto del crimine il proprio pane quotidiano. È questo lo scenario in cui si dipana il tragico svolgimento di una battaglia impietosa e brutale, fatta di regole d’onore destinate a sfaldarsi di fronte al profitto. Una narrazione abbastanza semplice: un colpo grosso, una guerra fra bande. Eppure nulla sembra essere scontato e resta sempre alta l’aspettativa verso il colpo di scena, il coup de théâtre che non è mai sconvolgente eppure colpisce forte allo stomaco.

Questa è la caratteristica più importante di Rififi: la capacità di avere un ritmo che confonde gli animi. Un thriller che però non si permette ispirazioni alla grande moda del giallo anglosassone. Funziona così, nella sua semplicità priva di orpelli narrativi ma emotivamente esplosiva. 

Il crimine così, si riflette in sé stesso in una spirale che aumenta la propria velocità sino al tragico epilogo, senza risparmiare quasi nessuno: il bene non trionfa, semplicemente perché il bene non esiste, non è contemplato. Tra i chiaroscuri di un bianco e nero tagliente, si palesano le attitudini votate al male di personaggi che non conoscono ambivalenze ma solo debolezze, vizi capitali che li condurranno all’errore involontario, una sorta di difetto di fabbrica che ne identifica fattezze e psicologie.

La redenzione è involontaria, perché le colpe si possono espiare solo attraverso la morte. È una banda fatta di personaggi terrificanti perché non conoscono la pietà ma agiscono quasi come soldati con un obiettivo determinato e imprescindibile. Sono quasi tutti sadici, misogini e guidati da un egoismo che non conosce senso di colpa se non quando travolge l’innocenza del mondo esterno, quello che si alterna alla monade criminale. Il mondo del crimine quasi del tutto notturno, fatto di ombre e contrasti che si contrappone a quello diurno in cui esistono i buoni, anche se solo come contorno appena tangente alla via del crimine. È una contrapposizione accennata ma incisiva senza calcare troppo l’impronta di un messaggio propositivo: Dassin non vuole insegnarci nulla.

Questo pessimismo morale pervade l’intera durata di una pellicola che ha segnato una pagina fondamentale della storia del cinema, contribuendo alla definizione dei canoni narrativi del genere noir e inventando l’Heist Movie. Da “i soliti ignoti” passando attraverso “Colpo grosso” con Sinatra, sino ad arrivare a “Le Iene” e al recentissimo caso mediatico de “la casa di carta”, con Rififi si crea la narrazione cinematografica del “grande colpo”, un genere destinato alla rigenerazione perenne.

È il 1955 e Jules Dassin, dopo essere stato costretto a fuggire in Europa a causa della caccia alle streghe che si è scatenata al di là dell’Oceano, decide che forse il vecchio continente è la sua patria ideale. D’altronde con un cognome del genere, attribuito tra l’altro per una pura casualità dall’ufficio immigrazione degli Stati Uniti a suo padre, l’Europa e nello specifico la Francia sembra essere il posto perfetto.

È qui che il regista americano ma di origini ucraine girerà il suo primo film integralmente prodotto senza l’ausilio di fondi statunitensi ed è sempre qui che una nuova classe di critici inizia ad approcciarsi al mondo del cinema con uno sguardo del tutto nuovo, distante dalle logiche del puro entertainment e alla ricerca del valore autoriale dell’opera. Saranno proprio loro, i giovani che scrivono sui Cahiers du cinéma a riscoprire il cinema di Dassin e a riconoscergli una sua cifra stilistica, identitaria e profondamente radicata nel noir più estremo.

Dopo aver contribuito alla creazione del Noir Americano, ora Dassin si prepara a dare il suo contributo per la definizione del Noir Francese e lo fa partendo da un romanzo di Auguste Le Breton, un romanzo crudo, realistico che trova la sua genesi nella fredda osservazione dei contesti malavitosi francesi (per lo più costituiti da comunità di italiani, corsi, nordafricani), cosa che ne riflette le logiche tutt’altro che romantiche. Il crimine è un business e non ha tempo per concedersi ai sentimentalismi. È la profonda attinenza con il reale che fa innamorare di questo romanzo il regista in esilio.

Se il Rififì di celluloide funziona, è anche perché il Rififì di carta funziona benissimo tant’è che alla sceneggiatura Dassin ritiene necessario coinvolgere lo stesso Le Breton nella fase di scrittura. I dialoghi sono essenziali, lucidi, diretti e definiscono le situazioni in maniera impietosa. Tra le strade di una Parigi notturna, tra le bische clandestine in cui è quasi impossibile respirare per via del troppo fumo passivo e i pavimenti ricoperti di cenere, che si confonde via via nella polvere degli edifici in costruzione si muovono gli antieroi di questa epopea nera raccontata attraverso inquadrature claustrofobiche e movimenti di macchina rarefatti.

Dal neorealismo italiano, Dassin, come aveva già fatto in precedenza, prende il rifiuto per le ambientazioni ricostruite prediligendo le strade vere della città, una Parigi che si mostra attraverso un volto inedito ma reale. È una scelta che influenzerà il nuovo cinema francese a cominciare dalla fine degli anni Cinquanta e che si rivelerà fondamentale più della stessa corrente italiana. È il volto dei clan della malavita che gestiscono locali e loschi affari, è il volto della Parigi post secondo conflitto mondiale popolata da figure al margine e su cui aleggia il fantasma delle dipendenze: dal gioco d’azzardo sino alla cocaina. Sono queste il motore centrale del libero arbitrio, le necessità di rispondere a un bisogno divenuto primario. Si definisce così una nuova contemporaneità, figlia del vuoto sociale e che è destinata ad implodere.

I protagonisti di Rififi non abitano le periferie ma abitano la Parigi centrale, dei grandi monumenti. E anche se un messaggio di facciata viene messo sulla bocca di una delle protagoniste, non c’è alcun vero intento moralista in questa pellicola. La volontà è quella di raccontare una storia senza alcun senso di responsabilità se non quello di far funzionare il tutto e forse è proprio questo il motivo per cui Rififi è ancora oggi così efficacemente coinvolgente, perché si basa semplicemente sull’eterno assunto che “il crimine non paga”, ieri come oggi. Non un messaggio ma una regola che non conosce tempo, una sorta di presa di coscienza.

I personaggi di Dassin e Le Breton non fanno i conti con la paura, hanno già accettato il loro destino e conoscono solo la via della violenza. In un contesto fatto solo di crimine, in cui la legge è quella del più forte, Dassin si muove con estrema maestria, dosando la tensione, attraverso un montaggio dinamico e osando in trovate registiche che prediligono a tratti l’effetto sonoro al dialogo, innescando un meccanismo che pone lo spettatore su un’automobile che prende velocità. L’accelerazione del ritmo e il ribaltamento degli equilibri narrativi rendono Rififi una continua corsa contro il tempo in cui l’ansia si espande in maniera coinvolgente e che si conclude in maniera assolutamente sorprendente. Un grande classico che funziona a distanza di sessantacinque anni e che attrae in maniera morbosa senza lasciare alcun barlume di speranza. Una potenza narrativa inarrivabile e sconvolgente che valse A Jules Dassin il premio alla miglior regia all’ottavo festival di Cannes.

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