Ritratto della giovane in fiamme, il film pieno di bellezza della coraggiosa Céline Sciamma

by Paola Manno

Da una piccola imbarcazione che danza tra le onde, una donna si getta in mare –il lungo abito pesante, il corsetto che è una gabbia- ma lei nuota, deve recuperare la cassa di legno caduta in acqua. Dentro, delle tele, i suoi colori ad olio: la sua arte per la quale vale la pena morire, ma che pure la mantiene a galla. Non si può non pensare ad Ada McGrath, l’eroina muta di Lezioni di piano, su una barchetta simile, che sprofonda in mare insieme al suo pianoforte, per poi risalire verso la luce.

E’ il 1770 e la pittrice Marianne, figlia d’arte, sbarca su frastagliate coste della Bretagna per ritrarre, senza che lei se ne accorga, Heloise. La donna infatti si finge dama di compagnia per poter studiare, memorizzare il volto della giovane e  riprodurlo in un ritratto da destinare al futuro marito, che lei ostinatamente rifiuta.   

Ritratto della giovane in fiamme è un film pieno di bellezza, di attenzione, di sguardi, curatissimo in ogni dettaglio. E’ un film meraviglioso a vedersi: è il cinema che indossa i suoi abiti migliori sfoggiandoli con serietà nella finzione, è un cinema che ti prende per mano e ti accompagna in un luogo che è un dipinto, è esteticamente impeccabile – lo senti ad ogni inquadratura-, la cui fotografia è della talentuosa Claire Mathon.

Marianne ed Heloise si incontrano e si amano in un luogo chiuso, un palazzo disabitato e vuoto, in stanze che però emanano una sensazione di familiarità, in cui le due bevono vino e birra, giocano a carte, si amano in una luce che ha il calore di un nido.

Fuori, le onde che sempre si frangono sulla scogliera contrastano la calda penombra degli interni con gli immensi azzurri e bianchi del mare, colori che rappresentano la libertà negata: è da queste rocce che la sorella di Heloise si è gettata per morire, rifiutando il destino di essere moglie. La libertà che è vicinissima, ma inafferrabile. E’ in riva a questo mare che Marianne abbraccerà il suo amore per l’ultima volta, chiedendole perdono perché non hanno scelta.

Il film è un tripudio di voci dell’arte –pittorica, letteraria, musicale- dove oltre l’immagine anche le parole sprigionano luce. Le due donne leggono, discutono sul mito del ritorno dall’Ade, sull’amore che lotta per riprendersi l’amore, si incitano l’un l’altra a voltarsi e a guardare, come Orfeo la sua Euridice, affinché diventi eterna. E poi la musica, in un film praticamente senza colonna sonora, una musica prima strimpellata al pianoforte da Marianne, che non ricorda le note, ma solo la rabbia della tempesta estiva, e poi magistralmente suonata in un teatro a Milano, da un’orchestra vera, in tutto il suo splendore: Heloise di fronte a l’Estate di Vivaldi che la fa scoppiare in lacrime nella scena che chiude il film.

Il fascino delle immagini, delle parole, dei suoni, accompagna quella della bellezza del racconto del rapporto tra donne, che è uno scambio spontaneo, un affetto sincero, un reciproco aiutarsi nella sventura di essere donna e che non coinvolge solo le due protagoniste, ma anche Sophie, la giovane serva che non ha affatto un ruolo secondario nel film, la madre di Heloise, le altre abitanti del paese, persino.

Ogni donna ha un suo dolore che non teme di raccontare: Heloise rifiuta il matrimonio, Marianne è obbligata ad esporre le sue opere con il nome di suo padre, sa che non potrà mai raggiungere il successo di un uomo, in pittura; Sophie deve abortire; la mamma di Heloise, interpretata da una malinconica Valeria Golino, sogna una vita nuova, lontana da quell’isola sperduta.

Sono tutti rapporti alla pari, rapporti in cui le donne trovano rifugio l’una nell’altra senza il peso del giudizio. L’artista accanto alla donna appena uscita da convento, le due ad accudire la serva disonorata, la madre affianco alla figlia con cui divide il destino di chi è predestinato e non ha scelta. Ancora oltre, il sentimento di sorellanza universale scoppia nell’unica scena di gruppo, quando le donne del paese di ritrovano attorno a un falò sulla spiaggia a cantare insieme, all’unisono “Fugere non possunt”, una condanna e una liberazione insieme.

Tutte queste donne sanno che non potranno mai essere libere: di avere o non avere un figlio, di scegliere un uomo, di vivere un amore con un’altra donna, eppure cantano, urlano attorno al fuoco che brucia gli occhi, la veste di Heloise: la giovane in fiamme. È questa la scena più poetica, più costruita e più intensa –è il cinema e il cinema fatto bene- la gonna infuocata della composta, furente Adèle Haenel, che non strepita, non urla, ma brucia pochi istanti, con fierezza, subito spenta dalle mani solerti di chi la ama.

Un film che parla d’amore tra donne – quello universale – della coraggiosa regista Céline Sciamma, dallo sguardo ibrido, come ella stessa dichiara in una recente intervista “Sono il prodotto dello sguardo maschile – lo siamo tutti. Ho passato la vita ad amare film che a volte mi odiavano, identificandomi con Superman, ad esempio. Lo sguardo femminile è un ibrido: si tratta davvero di conoscere entrambi questi mondi”.

Probabilmente la potenza di questo film è proprio questa: il racconto di un rapporto alla pari che così poco vediamo al cinema, perché è sul gioco di forze che spesso si costruisce lo sviluppo di un film. Già, questo è un ottimo film scritto e diretto da una donna, e lo capisci subito chi c’è dietro alla macchina da presa.

Recentemente la regista, 41 enne, francese, ha dichiarato “Bisogna dare più soldi alle registe per fare i loro film. Questo è l’unico modo per avere uguali diritti”. Già, questo è l’unico modo per poter crescere, continuare a scrivere, a raccontare con altri occhi, a fare film intensi come questo.

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