Servillo, Orlando e ciò che dal carcere fugge. Ariaferma, il film di Leonardo di Costanzo distrugge i canoni del genere e i ruoli di criminale/giustiziere

by Gabriella Longo

Sospendere la vita fino a nuovo processo. Aspettare disposizioni. Sostare, in senso crudamente beckettiano, in uno spazio e in un tempo anonimi ed eterni. Giorno e notte si sovrappongono. Il fuori” è soltanto detto ma chissà se esiste ancora. Cosa vediamo, chi vediamo, è quanto ci è dato sapere. Unimmanenza detestabile. Un’uni(ci)tà di luogo e di tempo. Ma anche di corpi, di urina e di polpette nel sugo. Condizione imprescindibile di un certo teatro, normale amministrazione per un carcere. Eppure, nel vecchio istituto di pena rubato ad una remota e imprecisata località italiana e fatto diventare dall’occhio documentarista di Leonardo di Costanzo palcoscenico filmico di Ariaferma, c’è qualcosa che prescinde lumana corporeità e la durezza imposte dalla cornice carceraria. Qualcosa che evade. Qualcosa dimprendibile. E di splendido.

Siamo in un carcere che sta per essere dismesso. Alcune aree sono già abbandonate, l’edificio assomiglia più a una carcassa. Restano solo i 12 detenuti del polo circolare, bloccati per problemi imprevisti nell’istituto carcerario che avrebbe dovuto accoglierli. Questione di pochi giorni, assicura una direttrice che comunque non si vedrà mai, che non “scende” dai suoi uffici e tantomeno a compromessi con i detenuti. La diretta gestione della struttura è dunque affidata a uomini, quelli della penitenziaria e quelli che scontano le condanne. Per adesso, tutto secondo i canoni del genere “guardie e ladri”.

Le visite ai parenti sono bloccate, la cucina è chiusa, un catering esterno consegna dei pasti immangiabili. E allora il detenuto Carmine Lagioia (Silvio Orlando) fa partire una protesta che accoglie immediatamente l’unanimità dei condannati. L’attesa è dura e il fatto che l’avviso di trasferimento potrebbe arrivare da un momento all’altro non consola nessuno; che almeno si mangi decentemente. Propone di cucinare lui, per tutti, secondini e non. Si scoprirà più avanti che ha imparato l’arte nel ristorante di suo padre.

Di contro, il capo delle guardie (Toni Servillo) è fra due fuochi: la paura che la ripicca dei detenuti degeneri (e loro a gestirli sono in pochi) e le pressioni di alcuni dei suoi colleghi che di avviare trattative con i carcerati, e quindi violare il protocollo, proprio non se la sentono.

La responsabilità è sua. Decide di accettare, non per debolezza, non per paura, forse per sfida. Una sfida sferrata, prima di tutto, proprio ai canoni di quel genere “guardia e ladri” a cui Ariaferma si accosta soltanto per un attimo, con esiti, da qui in poi, assolutamente imprevisti. Proprio perché qui non ci sono delatori, secondini prevaricatori o criminali ingestiti e ingestibili.

“Mai vista una cosa simile” dice, appunto, Carmine Lagioia riferendosi alle guardie che una sera, con i quadri elettrici messi fuori uso da un violento temporale, si mettono a mangiare con i detenuti, cose cucinate dai detenuti, in un banchetto allestito fuori cella e illuminato da qualche lanterna di fortuna. Quasi a sottolineare quello che Lagioia va dichiarando sin dall’inizio ma che il capo delle guardie non può ammettere ad alta voce e cioè che al di sotto dei ruoli e delle divise sono tutti prigionieri lì dentro, nessuno escluso.

C’è però qualcosa che in Ariaferma riesce ad evadere, a trascendere l’estrema corporeità del racconto, le maschere e i ruoli (se vogliamo restare nell’ambito teatrale) a sostanziarsi al di sopra dei topoi di sorveglianti/riottosi e di tutti gli stereotipi di durezza del cinema carcerario. E che, in fondo, coincide con ciò che auspicheremmo essere nella realtà. Qualcosa di estremamente fragile e dolce. Assolutamente imprendibile. L’imprendibile del carcere. E questo è stato possibile soltanto perché Leonardo di Costanzo è riuscito a sospendere ogni giudizio sulla legge e sui ruoli di criminale/giustiziere, tant’è che di nessun carcerato si conosce il vero motivo della reclusione. Ci si aspetterebbe che qualcosa di tragico e improvviso irrompa e ribalti le cose, e invece si assiste allo stesso momento fotografato con una esposizione lunghissima.

Ariaferma, del resto, è scritto tutto attaccato, proprio come un profondo respiro che si tiene mentre si è in apnea. Tutto accade mentre si è in attesa di qualcosa di più grande. E le azioni che si compiono nel frattempo, come tutta la regia, la sceneggiatura e la partitura sonora (fatta principalmente di stridori e clangori di cancelli che si chiudono) procedono per sottrazione: potrebbero tendere all’elegia e invece restano sempre nella dimensione realistica del quotidiano. Come l’atto di cucinare insieme e per tutti. Come la cena al centro del polo circolare, laddove simbolicamente il cibo è stato il trait d’union fra queste vite recluse e i tavoli riuniti uno squarcio di ricreatività durato il tempo d’un blackout. O i ricordi sulla vita prima della prigionia che i personaggi di Orlando e Servillo si scambiano mentre raccolgono erbe spontanee nell’orto del carcere, momento in cui i loro campi/contro campi (blindati, “carcerari” anche’essi) si parlano per la prima volta con immensa tenerezza, fino a riconoscersi, l’uno nell’altro.

Presentato fuori concorso e fra i più amati della selezione, Ariaferma (in sala dal 14 ottobre) è stata la conferma del talento di questo regista che da sempre, attraverso il documentario o tramite il lungometraggio di finzione, riflette sulla prigionia e sulla cattività umana. Lo aveva già fatto, l’ischitano di Costanzo, prima ne L’intervallo (2012) – dove pure c’era un “gioco” fra sorvegliante e sorvegliato in uno stabile fatiscente – poi ne L’intrusa (2017) – dove l’ossessione per la condizione carceraria e la sua mappatura spaziale si esplicava nel centro “La Masseria” di Napoli-.

Qui il merito è tutto di due professionisti quali sono Orlando e Servillo alla guida di attori non professionisti ma che l’esperienza del carcere l’hanno vissuta realmente. Merito anche di una sceneggiatura che identifica bene ogni personaggio e di una regia mai urlante, mai giudicante, che è stata capace di trasformare tutto ciò che ci si aspettava in una bellissima storia umana raccontata con compattezza, rara pudicizia e discrezione.

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