Si scrive Alfredo Traiano, si legge Foggia. «Nel cognome che ho scelto», il piccolo capolavoro di Lorenzo Sepalone con le scuole che segna la vittoria di Giovanna e Francesco

by Enrico Ciccarelli

«Mi si sono aggrovigliate le budella». La recensione che Julia Roberts fa della Traviata in Pretty Woman è esattamente quella che vorrei proporre come mio parere per «Nel cognome che ho scelto», il cortometraggio che Lorenzo Sepalone ha girato sulla vicenda di Alfredo Traiano.

Proprio come per la celeberrima opera di Giuseppe Verdi, è necessario distinguere la vicenda storica narrata dalla sua elaborazione artistica. La storia di Alfredo Traiano è di quelle che commuovono gli animi più induriti. A me ricorda uno degli articoli più tristi che mi sia toccato in sorte di scrivere, sulla giovane vita di una persona buona e bella oltre ogni dire spezzata da un essere rivelatosi indegno dell’amore di lei.

Un femminicidio, quando ancora il termine non era di moda, compiuto con modalità particolarmente aberranti. L’ex-marito la uccise in chiesa, dove Giovanna Traiano, madre del piccolo Alfredo, che aveva allora quattro anni, era andata con il suo gruppo di preghiera. Non voglio nominare l’assassino, a cui la clemenza delle leggi ha consentito di rifarsi una vita, di sposarsi con un’altra donna e generare un altro figlio. Per quel che mi riguarda, la sua dignità di essere umano è scomparsa nel momento stesso in cui ha premuto il grilletto, in quel tremendo 21 febbraio del 2003. Ma per fortuna mi tocca narrare e non giudicare.

Va quindi raccontata la storia del piccolo Alfredo dagli occhi grandi, scuri e profondi, che cresce con quelli che lui stesso chiama i suoi supereroi: i genitori di Giovanna, i nonni; e lo zio Francesco, quasi un fratello maggiore. Grazie a loro, e in parte grazie anche alle tante anime salve della città, del volontariato cattolico e laico, Giovanna è per Alfredo più una nostalgia di luce che un lutto, più un insegnamento di dolcezza e di gioia che una perdita. «Di lei ricordo il profumo» dirà sempre, e forse non si può immaginare un lascito più felice.

Alla maggiore età Alfredo fa una scelta importante: sceglie per il proprio cognome la sua famiglia vera, quella che gli ha dato affetto e protezione, non quella assegnatagli dai codici patriarcali dello ius sanguinis. Il richiamo del sangue è a quello innocente sparso da sua madre, che –sono parole di Alfredo- si separa dal marito violento, così firmando la propria condanna a morte, perché il mostro, non riuscendo a piegare quel fragile e indistruttibile fiore, aveva cominciato a prendersela con il bambino. È quel sangue, quel nome, non quello esecrando dell’assassino, quello in cui si riconosce, quello di cui vuol essere memoria.

Ma il destino sta per chiamarlo a un’altra dura prova, il 17 settembre del 2020, quando suo zio Francesco viene brutalmente ferito nel corso di una rapina compiuta da cinque balordi all’interno del suo bar. Morirà dopo ventidue giorni di atroce agonia. Quattro dei suoi assassini hanno fra i 21 e i 24 anni, mentre l’esecutore materiale dell’omicidio era ancora minorenne in quel momento.  Così Alfredo decide che il suo dolore privato deve farsi pubblico, che la sua voce deve levarsi in rappresentanza non solo delle vittime di violenza e illegalità, ma anche di quell’enorme massa di cittadini perbene, di onesti, di lavoratori che sono indotti quasi a vergognarsi della loro rettitudine. Perché –vedete- si scrive Alfredo Traiano, ma si legge Foggia. La storia di questo bambino sfregiato dalla sorte e fattosi uomo di mite determinazione è la storia stessa della nostra città, piagata e vilipesa, rassegnata a un fato di infamie. Scegliersi un cognome è scegliersi un destino, ed è questo che Foggia non riesce a fare: per ignavia, scoramento, rassegnazione.

Fin qui la storia, che è di quelle che farebbero dire a Ugolino della Gherardesca «E se non piangi, di che pianger suoli?» Ma per quanto intensa, commovente, straziante, la vicenda di Alfredo rimarrebbe una scheggia della nostra memoria labile e pret-à-porter se Lorenzo Sepalone, giovane cineasta pluripremiato, un futuro prossimo come attore coprotagonista di una serie blockbuster, il sogno nel cassetto di un film sulla tragedia di Viale Giotto, non ne avesse fatto (come regista, autore del soggetto e sceneggiatore) un piccolo capolavoro filmico. Prodotto a basso budget, certo, realizzato da una crew risicata,  benché di deciso talento. Meritano di essere citati uno per uno, in ordine di locandina: Dario Di Mella alla fotografia, Fabrizio Franzini al montaggio, musiche originalidi Francesco Petronelli, scenografiadi Federica Scopee, suono di presa diretta Tommaso Danisi, sound design Thomas Giorgi, coordinatrice di produzione Daniela Castellabare.

La storia è quella del progetto «Motore, ciak, azione» presentato in partnership dalla Scuola Media «Giovanni Bovio» di Foggia e dalla sezione di Manfredonia del Professionale «Michele Lecce» (i dirigenti delle due scuole, rispettivamente Milena Sabrina Mancini e Luigi Talienti, erano entrambi presenti alla prèmiere tenutasi all’Altrocinema Cicolella (prezioso faro di cultura nel centro antico della città) e brillantemente condotta dalla docente Lucia Campanella), che ha partecipato con successo al bando dei Ministeri della Cultura e dell’Istruzione «Cinema e immagini per la scuola».  Il progetto, coordinato da Lorenzo Sepalone con Sguardi Liberi, ha previsto, oltre alla realizzazione del corto, un percorso di alfabetizzazione cinematografica degli studenti.

Perché «Nel cognome che ho scelto» è un capodopera in sedicesimo, proprio come «M’illumino d’immenso» è un poema epico in miniatura? Intanto per l’assoluta ergonomia. Le sventure che hanno costellato la vita di Alfredo vengono didascalicamente riassunte da una voce giornalistica fuori campo, mentre chi le ha subite è un volto su fondo nero seduto su una sedia, illuminato da una luce di taglio e con un angolo di ripresa che valorizza i suoi occhi. Lo sguardo di Alfredo, luminoso anche nei momenti di maggiore malinconia e drammaticità, è il paesaggio di cui le risposte sono la colonna sonora, insieme a una musica tanto magnificamente composta, così profondamente ed empaticamente inserita nella vicenda da risultare quasi indistinguibile, discreta, incorporata.

L’assenza di qualsiasi morbosità, il ripudio di ogni effetto splatter e di ogni prava spettacolarizzazione del dolore favoriscono una pena intensa, infrenabile, con le parole che cadono come singole gocce di pioggia in una pozzanghera notturna «Quando mia madre capì che l’uomo che voleva salvare non poteva essere salvato» e nonno che sembrava superman, e il calcetto con lo zio, e la drammatica corsa in ospedale e l’orribile attesa, con le preghiere inascoltate perché si salvasse. Un viaggio che opprime il cuore e l’anima, in cui non sai se questo tizio che parla con tanto umile nobiltà sia da compiangere, da applaudire o da invidiare (lui precisa sempre di non avere ricevuto alcun compenso per questo corto e per le altre iniziative nelle quali reca la sua testimonianza; noi, potendo, lo pagheremmo più di Cristiano Ronaldo).

E poi, quando sembra che nulla più possa proteggerci dalla fossa delle nostre inquietudini, dall’abisso e dal precipizio, ecco che la solitudine di quegli occhi grandi e scuri, di quella giacca grigia su camicia bianca da bravo ragazzo si interrompe, e arrivano, immagini della città piene di luce, e soprattutto loro, le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi della «Bovio» e del «Lecce». L’amaro baratro dei ricordi tormentosi cede il passo alla speranza e al futuro: quelle cose che esistono non per dimenticare, ma per andare oltre. E ci assicurano, attraverso Alfredo, che chi non c’è più non è fra gli sconfitti, ma tra i vincitori. Nel corto c’è un’immagine crudele come un coltello, che Sepalone ha scelto per simboleggiare l’assassinio di Giovanna: è una candela, nella chiesa della Beata Maria Vergine dove avvenne il delitto, che un atroce soffio di vento spegne di colpo, quando aveva ancora tanta luce da dare. Ma in realtà l’ha data. Perché –come ha notato su facebook una persona che conosco e ammiro- è a Giovanna che dobbiamo Alfredo. È a lei e a loro, alle tante madri coraggio vittime di abuso e violenza che tuttavia (o per questo) educano i loro figli nella mitezza e nel rispetto, che dobbiamo la speranza (no, la certezza) di un futuro diverso e migliore. Lorenzo Sepalone e la sua crew, Alfredo e quegli e quelle insegnanti, quelle e quegli studenti hanno riportato anche a noi un po’ del tuo profumo, cara ragazza che non sapemmo difendere. E ci hanno ricordato che, come dice il buon vecchio Neruda, «potranno recidere tutti i fiori, ma non fermeranno la primavera».

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