Tadzio alias Björn Andrésen, “Il ragazzo più bello del mondo”, la cui bellezza eterea è diventata condanna

by Giuseppe Procino

Nel 1970, il regista Luchino Visconti intraprende un lungo viaggio alla ricerca dell’interprete perfetto per il suo ultimo lavoro, tratto dal romanzo di Thomas Mann, Morte a Venezia. A Stoccolma, il cineasta milanese scopre Björn Andrésen, un timido ragazzo 15enne, destinato, ben presto, a diventare una star internazionale. Sarà, per il giovane, l’inizio di una turbolenta adolescenza divisa tra Londra, Cannes, Venezia e perfino il Giappone. A distanza di 50 anni dalla premiere del capolavoro di Visconti, Björn si racconta in un documentario intimo e personale svelando la sua storia fuori dal set.

Nel 1970, “Morte a Venezia” rende immortale il volto di Björn Andrésen. Da quel momento la vita del ragazzino definito dallo stesso Visconti “il ragazzo più bello del mondo” subisce una rivoluzione totale e totalizzante, spinge l’esordiente e giovanissimo attore svedese verso un viaggio senza ritorno, un passaggio verso l’età adulta forzato e forse prematuro per un quasi bambino che forse bambino non lo è mai stato. In pochissimo tempo Andrésen diviene una divinità, adorato in ogni parte del mondo, un’icona che segnerà il tempo e lo spazio, primo occidentale celebrato in oriente dove diverrà il primo Idol (con annesse canzoni) ed ispirerà il personaggio centrale del manga “La rosa di Versailles” (da noi Lady Oscar). Così bello che Visconti sul set della pellicola ordinerà a tutta la troupe di non osservare troppo il ragazzo, apparentemente per proteggerlo dalla violenza di uno sguardo non richiesto ma in realtà per preservare la riuscita delle riprese.

A distanza di cinquanta anni, cosa ne è stato di quella bellezza eterea, androgina e algida? Cosa ne è stata della vita di Bjorn e quanto l’incontro con il regista italiano è stato determinante? A darci delle risposte arriva “Il ragazzo più bello del mondo” documentario del 2021, distribuito da “Wanted Cinema” e “Cg entertainment” in Dvd e on- demand dopo una brevissima circolazione nelle sale cinematografiche.

Contrariamente a quanto il titolo suggerirebbe, il lavoro di Kristina Lindström e Kristian Petri non è un film sul successo mediatico. Non è il racconto della mirabolante avventura di una star ma quello di una discesa verso il fondo, una quasi predestinata infelicità a cui l’interpretazione di Tadzio nel film di Visconti non fa altro che dare un’accelerata.

La bellezza per Björn diviene condanna, non estetica vuota ma mezzo attrattivo per il lato oscuro della fama e nasconde il vero dramma di un’esistenza già segnata indelebilmente. L’intuizione dei due registi è quella di scegliere l’impronta autobiografica, quasi psicanalitica e di giocare su vari livelli narrativi e temporali, muovendosi perennemente in avanti ed indietro e ripescando rimossi e aneddoti determinanti tra i ricordi dell’attore. Così il documentario ribalta perennemente il piano narrativo della biografia e le riprese e la pellicola del 1970 si spostano perennemente dalla loro posizione centrale.

È davvero tutta colpa di Visconti? Forse sì, ma solo in quanto “Morte a Venezia” diventa incubo, obbligo e disagio, uno spazio angusto e incomprensibile per un adolescente chiuso in se stesso e cresciuto dalla propria nonna. Ed è proprio sua nonna a dividersi le colpe con il regista italiano, per aver spinto il ragazzo verso il cinema, proiettando su di lui la propria voglia di emancipazione, trasformando suo nipote nell’oggetto dell’ammirazione morbosa del mondo. Così Björn è trasformato in una creatura da esibire, quasi da portare al guinzaglio, per vivere nella luce riflessa della sua bellezza priva di difetti. È così per Luchino Visconti, ma solo sino alla premiere di Cannes della pellicola, per poi lasciarlo al suo destino la sera stessa; è così anche per un produttore francese, disposto a mantenerlo a proprie spese a Parigi. Il documentario mostra, da questo punto di vista, il volto atroce dello star system. E in questo paese delle meraviglie osserviamo il giovane attore muoversi spaesato, senza reali desideri se non quello di tornare a casa. 93 minuti di racconto intenso, un biopic denso di colpi di scena, un viaggio nella mente di Björn Andrésen, un’indagine completa sul prima e dopo. Cupo, a tratti angosciante, di una crudeltà spiazzante come può esserlo qualsiasi infanzia negata. Bello davvero.

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