The burning field, Justin Weinrich racconta la vita in una discarica attraverso gli occhi dei bambini

by Paola Manno

Il ritmo del ticchettio degli attrezzi da lavoro che riducono in frantumi lettori dvd, playstation e frigoriferi resta a lungo nelle orecchie dello spettatore. È un rumore insistente, cadenzato, un ritmo quasi ossessivo. Prima delle parole, prima delle immagini, sono i suoni a martellare la coscienza occidentale. Siamo in Ghana, ad Agbogbloshie, nella più grande discarica di rifiuti elettronici del pianeta. Justin Weinrich, regista newyorkese, antropologo e giornalista di formazione, ci trascina nel cuore della disperazione: il documentario “The burning field” (72 min, 2019) appena presentato alla XIII edizione del Terra di tutti film festival a Bologna, è un pugno nello stomaco.

La vita nella discarica viene raccontata attraverso le voci di quattro giovanissimi lavoratori, tre ragazzini e una bambina. Arrivano ad Agbogbloshie dal nord, sono figli di contadini che non hanno più terra da coltivare a causa della siccità; hanno 7, 13, 15 anni.

Qui non ci riposiamo mai. Il lavoro è meccanico, ripetitivo: smontano oggetti, cercano materiali da vendere –il rame, ad esempio- in ginocchio, con un magnete in mano, raccolgono pezzi di ferro vecchio, qualche chiodino, infine bruciano cavi elettrici, respirandone le sostanze tossiche. Li vedi camminare sotto il peso di grossi sacchi da smaltire. Lavorano in una terra avvelenata, ci camminano a piedi nudi, ci dormono sopra, insieme agli animali –mucche, galline, che pure respirano il veleno.

Quando mi hanno portato qui a lavorare, ho pianto per 3 giorni di fila. Volevo la mia mamma. Pensavo sempre a lei. Adesso mi sono abituata a vivere qui.  La solitudine, il senso di impotenza, la rassegnazione. E poi c’è la paura, continua, di essere aggrediti, derubati dei chiodini frutto del lavoro di un giorno intero, la paura di non essere pagati. I più fortunati guadagnano 1 dollaro al giorno. La malnutrizione. Smaltiscono i resti di un mondo di cui non sanno nulla, che non osano nemmeno immaginare. Sono le vittime senza colpa della leggerezza con la quale cambiano il nostro i-phone. Oltre trecento tonnellate di dispositivi tecnologici fuori uso vengono inviate, ogni anno, in questo sobborgo di Accra.

Noi non giochiamo mai. Il senso di giustizia, che pure un bambino percepisce, ed esterna ingenuamente, con rassegnazione, senza neanche rivendicarne il diritto.

In “The burning field” il cinema ritrova il suo senso civile, il documentario diventa arma, la macchina da presa si fa strumento vivo, diviene trasparente per passare in mezzo ai cavi, in mezzo al fumo, per stringere le mani sporche, i piedi consumati, sembra catturare l’anima di questa gente. Un’anima che, tuttavia, resta bianca, forse ancora per poco, in questi bambini diversi dai nostri. È un’ingiustizia di cui intuiamo molto, di cui vediamo poco, di cui ci importa ancora meno.

Un giorno, quando riuscirò a mettere da parte i soldi necessari e tornare a casa, voglio imparare un mestiere, voglio fare la sarta – è la voce di una bambina di 7 anni, 7 anni!

Eccola, l’anima è lì, bianca, già, forse ancora per poco. La vedi brillare davanti alla telecamera, in sguardi fieri, dentro occhi immensi.

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