The eyes of Tammy Faye, la storia autentica della telepredicatrice nella luminosa interpretazione di Jessica Chastain

by Claudia Pellicano

Il nome di Tammy Faye potrebbe evocare poco nel pubblico italiano, ma in quello americano ha destato un enorme interesse e clamore per ben oltre il ventennio che ha visto l’ascesa e il declino della coppia di telepredicatori più popolari della tv.

Il filone dei divulgatori religiosi che assurgono alla notorietà grazie ai media è stato ed è ancora vivo dall’altra parte dell’oceano, e alcuni di loro hanno popolato le cronache più per episodi di scandali e corruzione, che per la causa spirituale.
Tammy Faye, tele-evangelista cristiana, è la protagonista dell’ultima, luminosa interpretazione di Jessica Chastain, attrice che ha cominciato a calcare le scene con Al Pacino e che ora si prepara, con ogni probabilità, a ricevere una nuova nomination agli Oscar.
Dal film emerge un personaggio dotato di un autentico fervore, che, se pure non totalmente indifferente alla seduzione del denaro, risulta più vittima che artefice della propria sventura.

È una JessicaChastain sensibile e accorata quella che il pubblico della Festa del Cinema di Roma incontra il giorno della premiere italiana di The eyes of Tammy Faye. L’attrice esordisce condividendo la propria esperienza da produttrice: «Mi sono accostata a questo progetto nel 2012, durante le riprese di Zero dark Thirty. Ho visto il documentario su Tammy Faye e sono stata travolta dalla vera storia di questa donna, in contrasto con quella che i media ci hanno proposto mentre crescevo. Ho sentito di volerlo fare, ed è stato prima che avessi una casa di produzione. Ho quindi chiamato il mio agente e il mio manager e comunicato loro di voler acquistare i diritti del documentario. Produrre un film mi dà l’opportunità di lanciare delle provocazioni nelle scelte che faccio in termini di questioni di genere, di classe e di come vediamo le cose. Inoltre, come produttrice, posso essere coinvolta anche dal punto di vista della narrazione. La scelta più ovvia nel raccontare questa storia sarebbe stata il cinismo, la beffa della religione e delle persone coinvolte, perché è quello che l’America ha fatto per così tanto tempo. Io, invece, ho voluto ribaltare un po’ le cose, non addentrarmi nel gossip e nello scandalo, ma raccontare piuttosto una storia autentica. Produrre il film in prima persona mi ha aiutato a farlo.

Ho incontrato i figli di Tammy Faye e parlato con loro prima di cominciare a girare, perché credo siano rimasti profondamente segnati dall’essere cresciuti sotto i riflettori e ridicolizzati quando è emerso lo scandalo. Il trauma è stato enorme per loro, e volevo conoscessero le mie intenzioni riguardo al film e al fatto che non fossi interessata a traumatizzare nuovamente nessuno, al pettegolezzo o allo scandalo. Ero interessata alla storia d’amore. Gli ci è voluto un po’, la fiducia richiede tempo, ma mi hanno aiutata moltissimo, mi hanno detto, per esempio, quali profumi portasse la madre, e mi è piaciuto poter indagare il più possibile i rapporti».

Racconta l’approccio al personaggio del film di Kathryn Bigelow, una delle sue prove cinematografiche più importanti: «Per prepararmi ho fatto molta ricerca, ho letto The looming tower e il libro di Michael Scheuer su Bin Laden. È stato molto coinvolgente per me essere in questo film, perché ero ancora sola, non avevo una famiglia. È stata anche un’occasione per addentrarmi nella cultura dell’intelligence, ho potuto parlare con la donna che ho interpretato e capito quanto fosse ossessionata. Sono rimasta scioccata da quanto affidamento la CIA faccia sulle donne. Nel passato non abbiamo sempre ricevuto il giusto credito, mentre, dopo l’attentato, si è cominciato a comprendere il talento delle donne nel vedere le cose nel loro complesso, con uno sguardo più ampio. Nello studiare ogni informazione e mettere insieme i tasselli.
Ogni volta che interpreto qualcuno, ho bisogno di trovare un punto di contatto con cui relazionarmi, anche se si tratta di una persona molto diversa da me. Leggendo la sceneggiatura mi accorgo immediatamente di quella connessione; anche se interpreto un serial killer, dev’esserci un momento in cui potermi relazionare. Credo che ne siamo tutti capaci, in qualche modo».

Parla del remake di Scene da un matrimonio, riproposto in questi giorni su Sky Atlantic: «Naturalmente ho adorato l’originale e Liv Ullmann, che tra l’altro mi ha diretta in Miss Julie, ho trascorso molto tempo con lei, letto i suoi libri. Se mi avessero semplicemente offerto il ruolo di Marianne avrei detto di no, perché ce n’è soltanto una, ed è lei; la sua interpretazione è perfetta, non c’è modo di alterarla o di presentarne un altro lato. Ma poiché hanno modernizzato la storia e la visione dei generi, ho trovato molto interessante mostrare una donna che ha desiderio sessuale, egoismo, insicurezze, complessità, difetti e un profondo amore, in definitiva tutto ciò che la rende un essere umano, oltre che una donna. Per me è stato emozionante guardare a Scene da un matrimonio attraverso le lenti di genere di quell’epoca e le lenti di oggi».

Si addentra nel rapporto con gli altri attori, su come sia importante spronarsi a vicenda, e su come il talento dei colleghi aiuti a restare “nel momento”, come si dice in gergo recitativo: «Ti prepari, ma non sai, non decidi in anticipo come andrà una scena, per via dell’intenso rapporto di fiducia che si crea. È anche un rischio, voglio aspettare un po’ prima di lavorare di nuovo con Oscar Isaac, perché quando c’è tutto quell’amore e quella fiducia, c’è il pericolo di ferirsi a vicenda. Perché quando ci si conosce, si sa come colpire. È difficile lavorare con qualcuno a cui vuoi bene e poi interpretare un ruolo totalmente diverso, in cui arrivi anche a fargli del male. Sono acque complicate da navigare per me».

A dieci anni dalla sua uscita, ricorda con commozione il set di The tree of life: «Mi emoziona rivederlo, perché credo che Terrence Malick ti insegni l’umanità, l’amore, la grazia, il perdono e la bontà, tutte qualità che lui rappresenta. È stato un momento magico nella mia vita, è il film che ho preferito interpretare. Non dà neanche l’impressione di essere una pellicola, ma una poesia visiva».
Qualcosa che ci è mancato moltissimo.

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