The tragedy of Macbeth: il western solitario di Joel senza Ethan Coen

by Gabriella Longo

Abbandonati i vasti canyon, scesi da cavallo, venuti a sottomettersi alla dura legge delle città, fra cowboy ed eroi disgraziati – qualcuno persino un po’ demente -, i fratelli Coen ci avevano abituato ad un western disincantato e nichilista. Alla loro maniera hanno contribuito a semantizzare il genere, rovesciandone l’epica e i suoi refrain.

I tempi che corrono, shakespeiriani davvero per il cinema, si profilano desolati anche nel futuro di Joel Coen che firma per la prima volta un film senza il fratello (datosi pacificamente fuori dal giro). Joel non approda ad un’opera qualunque, ma alla più mesta del Bardo, The tragedy of Macbeth, e la chiama proprio così, col suo nome originale, l’impronunciabile. In barba alla iella. Un salto nel vuoto e nelle tenebre della natura umana che, del resto, è sempre stata la patologia eccellente del mestiere dei Coen.

Il film, dal 14 gennaio su Apple TV, ottiene tre nomination agli Oscar (miglior attore protagonista, migliore fotografia, miglior scenografia).

Il fratello superstite si accosta dunque a materia incandescente, che peraltro ha illustri predecessori cinematografici. Filma un Macbeth che attinge da tutti, anche da chi un Macbeth non ce l’ha nel carnet (quindi non solo Welles, Polanski, Kurosawa, ma anche Hitchcock, Bergman, a più riprese l’espressionismo tedesco). E lo fa in un modo che formalmente mira a mettere in luce concetti già presenti nel materiale di partenza: con schermo ristretto, bianco e nero a schiaffo (la fotografia plastica è di Bruno Delbonnel), scenografie oniriche (di Stefan Dechant) e affidandosi a grandi attori di cinema, ma comunque passati per il teatro e che più d’una volta si sono confrontati con Shakespeare. Come Denzel Washington, che smette i panni dell’eroe d’azione e veste quelli del re perduto nel suo delirio di superbia e terrore, e Frances McDormand, nella versione, se possibile, più efferata di Lady Macbeth che il cinema abbia mai conosciuto.

Ma anche Kathryn Hunter, una veterana del teatro fisico, che ha reso il personaggio delle weird sisters (le streghe, o le sorelle fatali), “weird” per davvero, è come una riedizione della Morte nel Settimo Sigillo. Ogni suo “ingresso in scena” è una performance: di lei ricorderemo ancora per molti anni l’inquietante numero di contorsionismo, la spettacolare triplicazione nello specchio d’acqua, le trasfigurazioni del corpo che prende le sembianze di un corvo, le bizzarrie magiche (bellissimo e di grande impatto, l’immenso calderone di volti che fa apparire e scomparire sotto i piedi di Macbeth).

Senza dubbio uno degli aspetti più potenti di questo adattamento è “l’architettura del non-luogo” in cui si svolge l’azione, complessivamente arido, con un debito fortissimo alle arti pittoriche. Dalle stanze del castello di Cawdor sgombre, tagliate da segmenti di luce e porzioni di ombre, costellato di scale ripide e strettoie, arcate alla De Chirico, sino alla brughiera avvizzita e battuta da personaggi strani, morte e cavalieri (ancora una volta Bergman), rovine, e una terra sabbiosa da paesaggio lunare, o come se Cawdor fosse stato improvvisamente spostato nel bel mezzo di un deserto.

Del Macbeth originario, quello di Coen ha esasperato proprio questo aspetto: l’immensa desolazione che avvolge i protagonisti. La sterilità dell’unione di Macbeth e consorte è uno snodo cruciale tanto nella tragedia quanto nel film di Coen. E Washington e McDormand, rispettivamente 67 e 64 anni, colgono pienamente l’ansia di questi protagonisti fuori posto e fuori tempo massimo. Macbeth, prima ancora di entrare in scena fisicamente, è introdotto dalle parole d’altri che ne esaltano le gesta sul campo di battaglia. Ma al cinema questo suo presentarsi nella dimensione sociale, fortemente ritualizzata della guerra, non lo rende un valoroso guerriero, semmai uno dei tanti patetici cowboy che Joel ha tratteggiato nel lungo viaggio accanto ad Ethan, colti nel bel mezzo di un western postmoderno. Il suo Macbeth non è un eroe magniloquente, bensì un uomo corrucciato il più delle volte, un guerriero la cui brama di potere suona ancora più comprensibile proprio perché Washington, a differenza ad esempio del sovraccarico di Fassbender, porta con sé il peso e la consapevolezza dell’età. E invece Lady Macbeth (o sarebbe meglio dire,“Ladykiller”?), che entrava in scena nella privata solitudine del suo castello, leggendo una lettera del marito, è qui presentata in uno spazio che si fa eco della desolazione che li abita dal di dentro. Con la potenza evocativa di una scenografia a tratti brutalista, avanza verso la macchina da presa per un lungo corridoio, dapprima come un’ombra scura che, avvicinandosi via via, si trasforma in un primissimo piano del suo volto (quasi sempre – o almeno quando lo spazio gli cede il passo – saranno proprio i loro volti a occupare la scena fissando lo spettatore come a renderlo complice).

Questo Macbeth è, sostanzialmente, la ballata di due attori soli, chiamati a interpretare una storia che non teme il tempo quanto lo temono loro. Colpisce perché la freddezza del loro rapporto e l’inverno delle loro vite è della stessa sostanza di cui sono fatti i personaggi dell’ampio universo dei fratelli Coen. È interessantissimo che l’avventura in solo di Joel sia iniziata proprio dal Macbeth, ma il marchio con una doppia “c” è stampato su questo film ancora a caratteri capitali. Prendiamo l’immortale compianto funebre di Macbeth per la defunta moglie ( “La vita è solo un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora (….) Una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”) e mettiamolo in bocca al Denzel Washington diretto da Joel. Non ha un po’ della stessa disumanità del sicario di Fargo, o la freddezza psichiatrica del killer di un film che (ironia della sorte) si chiama Non è un paese per vecchi?

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