Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa, i simboli e la bestialità arcaica della mafia garganica

by Antonella Soccio

Il pubblico delle grandi occasioni, che non si vedeva più dal gennaio 2020, prima dello scoppio della pandemia, ha accolto la prima a Foggia, in multisala, a La Città del Cinema, del film “Ti mangio il cuore” del regista Pippo Mezzapesa con Elodie, Francesco Patanè, Michele Placido, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno e moltissimi attori locali pugliesi, tratto dall’omonimo romanzo d’inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini.

Il direttore del multiplex Mimmo Morsuillo grazie alla sinergia con il location manager di Apulia Film Commission Pierluigi Del Carmine è riuscito ad avere in sala la star Elodie, alla sua prima prova d’attrice, lo stesso Foschini, la sceneggiatrice Antonella Gaeta e i due attori del territorio Dino La Cecilia e Gennaro Dello Mastro, che interpretano entrambi due boss della mafia garganica.

Tantissimi i giovani ammaliati dalla presenza della cantante.

Il film, come si sa, racconta uno dei capitoli del libro, quello dedicato alla pentita di mafia Rosa Di Fiore, interpretata da Elodie, sposata al boss Pietro Tarantino e poi amante e compagna di Matteo Ciavarella, figlio di pastori, al centro di una faida animalesca e feroce tra Cagnano e San Nicandro Garganico. Di Fiore si pentirà nel 2004 dinanzi al pm d’allora Domenico Seccia, per proteggere i suoi 4 figli, nati da entrambe le relazioni, e per interrompere la mattanza tra le due famiglie rivali.

Da “femmina di mafia”, trattata al pari di una vacca (50 vacche saranno il ristoro chiesto alla famiglia avversa per aver preso la moglie del loro figlio e affiliato) a testimone di giustizia, una delle prime della Quarta Mafia e della Montagna Sacra, l’altro nome del Gargano, terra di Santi, Arcangeli e morti uccisi, senza più volto.

Sia il romanzo sia il film sono un primo tassello della emersione della Quarta Mafia dall’abisso inesplorato della Società foggiana dentro i sistemi comunicativi nazionali mainstream. Anche Foschini ne è consapevole. Si è detta entusiasta e commossa invece Elodie per aver dato il corpo e il volto «ad una donna coraggiosa che è fonte di ispirazione per me e per tutte le donne».

«Quando Ti mangio il cuore è stato pensato, se ci avessero detto cosa volevamo, era sicuramente avere la sala piena- ha rimarcato l’autore- Ci avevano spiegato i tanti che lottano in questo territorio contro la criminalità organizzata che la forza principale della mafia in provincia di Foggia è il silenzio. Bisogna dare la voce. Noi ci abbiamo provato con il libro. E speriamo che ci siano altri 100 libri, 100 film e 100 podcast. Il senso di Ti mangio il cuore quando Pippo Mezzapesa ha voluto trarne un film e Nicola Giuliano ha deciso di provarci e di produrlo era di essere un megafono. Siamo qui in sala e mi riempie di gioia. Questo è un atto politico e sociale».

Il giornalista di Repubblica, che sul territorio insieme ad altri colleghi locali ha ricevuto non poche querele ed intimidazioni da soggetti legati alle batterie, ha evidenziato che «qualcosa a Foggia si sta muovendo». «Sono arrivati più pentiti di quanti ce ne siano stati in trent’anni di storia- ha osservato- Patrizio Villani, i viestani Danilo Della Malva, Orazio Cota e Giovanni Scurano, Antonio e Andrea Quitadamo, Antonio Laselva detto Tarzan. Tutti stanno offrendo racconti e riscontri precisi sul lavoro di magistrati e forze di polizia. E non si sono mai stancate di chiedere verità e giustizia Arcangela e Marianna Luciani, le vedove di Luigi e Aurelio».

Il film, che ha equamente diviso critici e spettatori anche alla presentazione nella sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, è sovraccarico di simbolismi e di una tradizionale visione della mafia garganica, arcaica, violenta e incestuosa con tanto di processioni, veli e pizzi, tra sacro e profano.

Qualcuno ha parlato di bestiario e di bestialità. Ed in effetti i tanti animali che scorrono e si staccano nell’opera di Mezzapesa sembrano essere lo specchio deformato dei sentimenti, assenti, dei vari personaggi. Con un effetto fortemente disturbante tanto da scatenare anche nello spettatore più disincantato e avvertito un irritante senso di ripulsa, un foggianesimo pavloviano contro una rappresentazione così bassa e animale, troppo animale.

La fedeltà dei cani, l’ottusità dei polli, l’ingordigia dei maiali, la purezza ingenua degli agnelli, l’inafferrabilità astuta dei lupi, la cecità dei buoi. Gli animali con il loro istinto anticipano le pulsioni di morte e di sangue della faida. “Me l’è magnat, tutta la faccia. Poi mi sono leccato il sangue”, è una delle scene madri che sanciscono la definitiva metamorfosi del protagonista da ragazzo sfrontato e bello del paese in malavitoso sanguinario, assetato di vendetta. Hic sunt leones. E sarà l’anello col leone, simbolo e sigillo per eccellenza, a svelare l’assurdità della guerra di predominio su un territorio insanguinato dove i corpi, come carne da macello, non valgono più di quelli delle bestie.

Grazie ad un drammatico ed intenso bianco e nero, per due ore si ripercorre l’epica di sangue, mossa da Rosa Di Fiore, che diventa Marilena nel film. Foschini nel libro cita il mito di Elena dell’Iliade per descrivere la bellissima Rosa, “come se in quella terra antichissima il mito avesse voluto riaffermare il suo primato arcaico, condannando gli uomini allo loro hybris”.

Il bianco del latte, del formaggio, dei sudari, delle case garganiche, come pagine bianche di omertà. Il nero della merda, del lutto delle vedove e delle prefiche e delle mosche che sporcano i prodotti caseari e ronzano sulle facce stuprate dei boss e dei loro accoliti. “Lasciami la faccia” è la supplica finale di Andrea (alias Matteo Ciavarella).

Il film si avvale di interpretazioni pregevolissime, che ne reggono la struttura e la carrellata simbolica tra masserie degradate, ovili, porcilaie e feste in sale da ricevimenti sul mare di terz’ordine. Lidia Vitale, Tommaso Ragno, Michele Placido e Francesco Di Leva insieme ad alcuni attori locali, selezionati dall’Apulia Film Commission, tra tutti Dino La Cecilia nel ruolo di uno dei fratelli Camporeale (i Tarantino) e Gennaro Dello Mastro nel ruolo di Zio Ciccio, rendono molto credibile tutto l’affresco sulla mafia garganica.

Ottima anche la prima prova attoriale di Elodie. Il suo personaggio non era facile, ma è riuscita, anche grazie alla sceneggiatura di Antonella Gaeta, a dare profondità ad una donna tormentata e coraggiosa, che corre e sceglie la via della vita per sé e per i suoi figli.

L’anello debole del film è forse proprio Patanè, con lui la messinscena si trasforma più volte in stereotipo macchiettistico. Anche se c’è da dire che è così maldestro da apparire vero nella sua incapacità di amare e soffrire.

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