Tre Piani, Nanni Moretti e un film fatto di case e persone, che restano sconosciute, per la loro impenetrabilità

by Gabriella Longo

Ce lo ricordiamo tutti Nanni Moretti quando in Caro Diario scriveva in sella alla mitica Vespa una geografia d’autore di Roma in pieno agosto, e quindi deserta, con i cinema chiusi (era il ’94) o che al massimo trasmettevano porno e horror splatter. Dagli eleganti Parioli, agli attici costosissimi del Lungotevere Flaminio, Moretti scivolava fino ai luoghi meno da cartolina della città, quelli relativamente “recenti”, come Garbatella (il suo preferito), Monteverde (dove vive), il Villaggio Olimpico, Spinaceto, e raccontava un contesto urbano stratificato, complesso, proteiforme.

In verità tutto il cinema di Moretti è un omaggio ai luoghi, alle case, intesi come spazi, come confini entro cui esistere e dai quali doversi emancipare. E succede anche in Tre Piani (2021), nuovo e attesissimo, rimandato per il Coronavirus e uscito al cinema soltanto il 23 Settembre, presentato a Cannes esattamente 20 anni dopo La stanza del figlio (2001).

Nel cast egli stesso, Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, Tre Piani è tratto dall’omonimo romanzo (Neri Pozza Editore) dell’israeliano Eshkol Nevo. È il primo soggetto non originale in oltre quarant’anni dietro la macchina da presa di Nanni Moretti e i fatti, rispetto al romanzo, sono traslati da un condominio situato nei sobborghi residenziali di Tel Aviv ad uno nel quartiere Prati di Roma.

Del resto, si potrebbe scrivere una contro storia di Roma e dell’Italia attraverso i film di Moretti, per i contenuti, per il clima sociale e politico in cui ogni film è uscito e più spesso per le profezie involontarie che ne scaturivano. Sia il libro di Nevo che il film di Moretti, sono stati realizzati prima che la pandemia introducesse il concetto di lockdown e prima che il cinema e la letteratura iniziassero a specializzarsi in drammi “da camera” e mettessero in scena il nuovo mondo umano e morale segnato dalle cose che il Covid ha riscritto. Eppure, questa storia ambientata tutta in un condominio, non sembra fare eccezione. Per non parlare dello sguardo sulla città di Roma che sorprende per non avere niente di contemplativo, nel suo essere raccontata non in senso “mobile”, girata in Vespa come quasi Trent’anni fa, percorsa in macchina (Mia madre), esplorata a piedi fino quasi a perdersi (Habemus Papam). Si ritrova la classica narrazione morettiana “dal particolare all’universale”, cioè ti parlo di un quartiere, di una casa, di un condominio (come nel caso specifico di Tre Piani), per parlarti di qualcos’altro. Ma questa volta con un senso di staticità, d’immobilismo che pervade ogni cosa, dall’ambientazione serrata, ai movimenti di macchina minimi, e persino la recitazione, votata a qualche esasperazione esteriore ma mai il contrario. Come se, letteralmente, mancasse lo spazio per fare e la possibilità di dire le cose. E in questo ha ricordato proprio i temi della cultura post-covid, checché se ne voglia. Roma non è nemmeno la città scomparsa e forse mai esistita se non nel cinema stesso, per “colpa” dei vari Fellini, Rossellini, Petri, Antonioni… È, piuttosto, un chiuso al sapore di lockdown, e anche quando ci si trova “fuori”, la città non spicca certo per la luce che affolla solitamente i racconti di Moretti. È una città livida, una scatola inattraversabile, o meglio, che si attraversa stancamente per fare le cose di sempre, casa-scuola-palestra-ufficio-casa, a tratti bulimica e concentrazionaria per ognuna delle tre famiglie protagoniste della vicenda.

Vivono nella stessa palazzina borghese, a tre piani differenti: la prima, composta da Lucio (Riccardo Scamarcio) e da sua moglie Sara, distrutti dal sospetto che la figlia di otto anni abbia subito abusi sessuali dall’anziano vicino a cui hanno l’abitudine di affidarla. La seconda da Monica (Alba Rohrwacher) e da sua figlia neonata, mentre il papà è sempre lontano, a lavorare su una piattaforma petrolifera in mezzo al mare. Si fa sentire per telefono e per questo la sua presenza è aleatoria quanto una voce. Nella terza, invece, ci sono una coppia di giudici, Vittorio e Dora (Moretti, Margherita Buy), e un figlio che ha appena travolto e ucciso una donna mentre era alla guida in stato di ebbrezza, da sempre in rotta con la figura autoritaria del padre.

Si legge da qualche parte che Tre Piani è il film “della maturità”, una di quelle cose che si dice di un regista quando ha alle spalle un’onorata carriera che ad un certo punto, per una qualche ragione, prende una strada che non ci si aspetta. Anche se qualche segnale già c’era e La stanza del figlio e soprattutto Mia madre ne sono la dimostrazione, che il “nuovo” Moretti predilige l’interno, ma in senso di intimo, anche se, questa volta, senza commedia né ironia, senza autobiografia né analisi generazionale, senza politica, senza Italia problematica, insomma, senza le caratteristiche che l’hanno reso celebre.

È di sicuro un “film etico” (Federico Pontiggia), perché etico è il “carnage” borghese del romanzo. Ma è anche un film erm-etico, nel senso meno morettiano del termine, motivo per cui divideva la critica sulla Croisette. Asciugato persino dell’ironia caustica che da sempre ha contraddistinto il regista. Severo nelle inquadrature, con una fotografia per certi versi minimalista, ambientato in una Roma verminosa, quasi invecchiata male. Ci si aspettava di ritrovarlo tagliente e snob come quando con la scusa del giro in Vespa, faceva la critica a tutto, passando dal cinema all’edilizia come nel suo film-icona che pure era un racconto su “tre piani”. Oppure che parlasse di genitorialità, di responsabilità dei genitori nei confronti dei figli con la stessa corrosività che ha caratterizzato praticamente tutta la sua filmografia, e che in Tre Piani è come un tema- ascensore che collega idealmente le famiglie. E invece no, Tre Piani è un film morigerato, programmaticamente distante, “civile”, come dice lo stesso Moretti, che qui è sembrato a tutti un altro.

Il libro di Nevo, dal canto suo, è pieno di snodi crudi, di azioni umane deprecabili, forse non del tutto biasimabili, che s’interrompono sul punto di massima accumulazione emotiva. Una storia finisce con un punto di domanda, poi ne inizia un’altra, si fanno le scale e in un senso quasi ascetico, si sale al piano di sopra; nuova famiglia, nuovo racconto. Comunque tutti legati a doppio filo dal significato di famiglia, dell’essere umani, dell’essere detestabili. Leggendolo, si stilano facilmente rapporti allucinanti sui personaggi, e al contempo ci si pongono anche domande per cui non si possono avere risposte semplici. E forse il vero senso d’immobilità del libro è suggerito proprio da questo, dal porsi delle domande che non hanno risposte (semplici). Dice, sempre nel libro, a titolo d’esempio, la neo-mamma (nel film Alba Rohrwacher):

“Nessuno lo ammette ma passare tante ore con dei bambini inaridisce.

Ci sono lampi, momenti di grazia, ma ormai da otto anni mi trovo intrappolata, -sì, è questa la parola- intrappolata nel mio desiderio di riuscire nella missione in cui mia madre ha fallito, e intanto la polvere del tempo mi ricopre, Neta. E io mi lascio ricoprire. Lo so che è un’immagine ormai logora, ma sono logora anch’io. Non ho la forza di fingere un’allegria che non provo più (…)

Nel film di Moretti sono tante le differenze, al punto che si potrebbe parlare solo di questo, dell’annosa (e per certi versi sterile) questione della trasposizione. A firmare la sceneggiatura (più simile ad una drammaturgia, e quindi a qualcosa che si produce fra quattro mura) con Nanni sono Federica Pontremoli (Il Caimano, Habemus Papam) e Valia Santella (Mia madre), e una delle scelte più evidenti è stata quella di far dialogare le vicende dei tre piani, ma soprattutto, di far proseguire i fatti più avanti rispetto a dove li faceva finire Nevo, spingere le azioni sino alle loro conseguenze, e quindi assolvere (in senso giudiziario e non), scagionare, liberare dal recinto di cui si parlava all’inizio. Eppure sembra un processo irreversibile quello che ha cambiato non soltanto il cinema come filiera e come contenuto, ma che ha reso anche lo spettatore capace di recepire solo pochi spazi minimi alla volta (quando i cinema erano chiusi, quanti film abbiamo consumato davanti alla tv, allo schermo del pc, o peggio, al cellulare?), tanto che l’affermazione di Buy quasi alla fine, “esiste un mondo fuori da questo condominio”, sa di libertà solo a metà.

Ce lo ricordiamo che proprio in Caro Diario Moretti vagheggiava un film fatto solo di case, senza nient’altro, case di sconosciuti? Ecco, Tre Piani, è forse la cosa più vicina a questo, ad un film fatto di case, reali o simboliche che siano, e di persone che le abitano piuttosto forzatamente, che restano sconosciute, per la loro impenetrabilità. A se stesse e a noialtri.

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