“Tutto il mondo fuori”, storie di resurrezione dietro le sbarre. L’intervista a Ignazio Oliva

by Mariangela Pollonio

Dall’inizio della pandemia quel mondo che osservavamo solo dalle nostre case sembrava non appartenerci più. Per mesi isolamento e chiusura sono state le regole dettate dalla cabina di regia del governo. 

Seppur sia servito per tutelare la nostra salute, ci è stata tolta la possibilità di relazionarci con le persone che amiamo. Ancora oggi la socialità è ridotta all’indispensabile e anche quella che a piccoli passi recupereremo ci farà vivere i rapporti sempre come se avessimo una ideale barriera. Per contrastare un essere malevolo ed immateriale, ci impongono delle distanze fisiche, che in poco tempo si sono tramutate per molti in limiti psicologici. Abbiamo dunque sperimentato, nessuno escluso, la mancanza di libertà improvvisa: è lo stesso sentimento che attraversa le vite dei protagonisti del documentario “Tutto il mondo fuori”, diretto dal regista Ignazio Oliva e scritto con la collaborazione di monsignor Dario Edoardo Viganò, vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Le riprese sono terminate poco prima del lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus e la scelta di mandare in onda il progetto in questo momento assume una forza maggiore, anche per il parallelismo che inevitabilmente si evince.

Oliva ha sempre affiancato al suo lavoro da attore, tanti i suoi ruoli al cinema in “Come due coccodrilli”, “Io ballo da sola”, “Scusa ma ti chiamo amore”, e nelle serie tv tra cui “Braccialetti rossi”, “The Young Pope”, “Tutti pazzi per amore”, la passione da documentarista, toccando sempre tematiche sociali.

Questa sua ultima creatura è un viaggio nella comunità del carcere “Due Palazzi” di Padova, eccellenza italiana: qui si rispetta la dignità umana, partendo dalla rieducazione dei detenuti, che si attua in concreto con vari laboratori. I detenuti dopo un primo periodo di inserimento vengono regolarmente assunti, sono seguiti dall’ufficio sociale di unconsorzio in collaborazione con la direzione e gli operatori del carcere e ricevono una formazione adeguata alle mansioni svolte. È un percorso lungo, che necessariamente per condurre al pentimento deve passare dalla consapevolezza dell’errore e dalla conoscenza del male che si è procurato, non solo agli eventuali estranei coinvolti, ma ai propri cari e in primis a se stessi. La comunità protagonista del documentario è la medesima che, per volere di Papa Francesco, ha composto le meditazioni della via Crucis del Venerdì Santo di quest’anno, svoltasi sul sagrato della Basilica di San Pietro.

Il documentario, una produzione dell’Officina della Comunicazione, dopo la messa in onda su canale 9, dove è stato trasmesso in prima televisiva, è ora disponibile anche sulla piattaforma Dplay Plus. Le immagini catturano la sofferenza di tre uomini diversi sia per le loro storie che per età. Uno di loro, condannato alla pena dell’ergastolo, è il personaggio che Oliva descrive con più delicatezza: un uomo che parla davanti alle telecamere come se si stesse confessando, in un’altalena di speranza e disperazione, che con difficoltà resta legato all’amore per la donna che lo aspetta fuori, da cui trae linfa vitale per costruire nella sua mente lo status di padre. Il regista riesce a raccontare la quotidianità del carcere non solo attraverso le parole dei detenuti, perché la sensibilità che lo contraddistingue è capace di far venir fuori le loro anime.

Una narrazione che acquisisce ancora più valore grazie al giovane Cappellano del carcere Don Marco Pozza, che accompagna lo spettatore in un mondo poco conosciuto fuori, un luogo dove il lavoro diventa veicolo di riscatto epermette di vedere una luce in fondo a quel tunnel che conduce alla fine della pena. Per il regista lo scopo principale della sua opera dovrebbe essere quello di far riflettere sulle tante privazioni, paure e perplessità che hanno solo sfiorato la nostra pelle in questo assurdo periodo storico. Uno stato di cose che Oliva spera possa far venir fuori dal mondo interiore, che appartiene ad ognuno, il timore di perdere, per un tempo non definito, quella libertà che spesso diamo per scontata.

Come ha scelto le tre storie attorno a cui ruota il documentario?

A dicembre un mese prima di girare, ho cercato di fare una ricerca sugli istituti detentivi. Così sono andato personalmente in carcere a Padova, dove ho incontrato una quindicina di detenuti. Ogni storia valeva la pena di essere raccontata. Ho avuto una grande difficoltà nella scelta. Alla fine i parametri delineati sono stati tre pene detentive diverse, con prospettive diverse sia del presente che del futuro, e tre età differenti. Tra loro ho voluto raccontare anche la storia di uno straniero. Avrei voluto inserire una donna, ma per problemi di produzione ho dovuto rinunciarea malincuore.

Perché si è approcciato a questo tema?

Perché lo scorso anno sono andato nel carcere di Roma, il Regina Coeli, a fare da attore delle letture tratte da testi di Papa Francesco, che aveva parlato ai detenuti di Rebibbia nell’anno del Giubileo. Ne ho fatto un collage con altri discorsi che sempre il Papa aveva tenuto nelle carceri del Sud America, in particolar modo in Messico. Alla fine dell’evento, mi sono fermato a dialogare con i detenuti presenti. Lì ho avuto una botta emotiva e il desiderio di raccontare, come spesso accade nella mia vita, di esseri umani in difficoltà, che possono essere i ragazzi di strada che incontro in Africa, quando lavoro nel tempo libero con una Ong, oppure, come in questo caso, il mondo carcerario e le pene alternative di cui la gente sa poco.

Prima di approfondire tale dimensione, quando quel mondo fuori era lei, cosa pensava?

Non avevo le idee chiare e quando è così di solito non mi esprimo mai. Non sono di certo uno di quelli che pensava per cultura che chi sbaglia deve essere rinchiuso lì dentro a vita e buttare la chiave. Studiando e facendo una approfondita ricerca anche giuridica del tema, sono partito dall’articolo 27 che afferma che la pena deve tendere alla rieducazione. (“L‘imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” – art. 27 Costituzione italiana).

Ho voluto quindi raccontare degli esempi positivi, una eccellenza carceraria, in modo che possa essere emulata sia da un punto di vista giuridico-organizzativo delle carceri, ma anche da un punto di vista personale dei detenuti. Un baluardo di questo mio lavoro è il mondo fuori, quindi l’obiettivo doveva essere sbaragliare il pensiero che la gente ha rispetto ai carcerati e invogliarla a credere che si possa dare una seconda possibilità a chi sbaglia nella vita, partendo sempre dal pentimento del detenuto stesso, che è il primo passo verso la salvezza. Nel percorso di ricerca ho incontrato anche chi non voleva assolutamente parlare del proprio passato, perché inconsciamente non lo rimetteva in discussione e quelle persone non le ho scelte.

Il direttore nel suo documentario afferma che “è anacronistico fissare i tempi dei colloqui e ritiene errato il diniego assoluto dell’affettività e della sessualità tra i detenuti e il mondo fuori”. 

Il direttore per me è un illuminato. Concordo con lui su tutta la linea. I colloqui al telefono, oltre a quelli canonici, e l’idea di far vivere la sessualità in carcere possono aiutare un detenuto. In altri istituti carcerari d’Europa già funziona così, addirittura non è previsto neanche l’ergastolo. 

Pensa che in Italia sia possibile tale cambiamento?

Credo che tutto sia legato alla cultura. Questo documentario l’ho realizzato anche per far conoscere certe realtà e accompagnare il mondo fuori ad un cambiamento, che per me è possibile se si vuole.

Ha dato un taglio cristiano, pur non essendo un fervente cattolico. E la presenza di Don Marco Pozza lo testimonia.

Don Marco è il nostro Virgilio, colui ci introduce in quel mondo lontano da noi. Non sono ideologicamente schierato. Credo che in qualsiasi mestiere, in qualsiasi gruppo sociale o di lavoro ci siano persone più o meno preparate: ci sonoavvocati bravi e non bravi, ci sono cooperative serie e non serie. Guardo molto alle persone e a quello che fanno nella vita, sono i loro comportamenti la vera politica. Questo uomo, Don Marco, fa molto per il carcere, che poi lo faccia attraverso la fede va benissimo. Non posso dare un giudizio su questo. C’è tanta gente che ha bisogno della fede per andare avanti. Come i miei bambini in Africa: ricordo che per loro era inconcepibile che non fossi credente nel senso religioso del termine. Ho provato a spiegare loro che credo nell’uomo, ma per loro ero pazzo, mi guardavano come se fossi un extraterrestre. E non ho più aperto il tema. Per molte persone la fede è un must, gli da speranza giorno dopo giorno. Ognuno ha le sue credenze, l’importante è che si mettano in atto dei valori sani. Puoi essere di destra, di sinistra, puoi essere cattolico, musulmano, buddista, ma ciò che conta è rispettare la legge, avere cura del prossimo. Sono legato a valori cristiani, sono cresciuto in un Paese cristiano, ma ho il dubbio dei filosofi.

Ha terminato le riprese del documentario poco prima del lockdown imposto dall’emergenza sanitaria. Una strana coincidenza.

Si, senza essere calcolato ci è stato questo parallelismo. Abbiamo vissuto momenti di reclusione anche noi qui fuori. Ho pensato soprattutto a chi ha case piccole. In prima persona abbiamo sperimentato cosa significa essere rinchiusi, e forse abbiamo potuto solo immaginare le vereconseguenze della mancata libertà.M

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