Gene Hackman, l’attore mai giovane che ha saputo cavalcare le frontiere dei generi

by Orio Caldiron

Gene Hackman è mai stato giovane? Sin dalle prime apparizioni è sempre sembrato adulto, forse per i tratti duri del volto, i modi rudi, le maniere spicce. Se è certamente uno dei grandi protagonisti del cinema d’azione, sarebbe sbagliato risolverlo in una tipologia a senso unico, trascurando la sensibilità psicologica con cui costruisce i personaggi lasciando affiorare i cambiamenti d’umore e le insicurezze di fondo.

Nato il 30 gennaio 1930 a San Bernardino, California, se ne va di casa a sedici anni per arruolarsi nei marines. Si iscrive alla Pasadena Playhouse School, deciso a diventare attore, un sogno che coltiva sin da bambino quando, appassionato di cinema, era un fan di Errol Flynn. Si trasferisce a New York con Dustin Hoffman. Mentre Gene muove i primi passi in teatro, Dustin s’insedia in casa sua in attesa del provino decisivo. Si rincontreranno sul set di La giuria (2003) di Gary Fleder dove duettano alla grande.

Si affaccia sullo schermo con Lilith, la dea dell’amore (1964), l’ultimo film di Robert Rossen. Solo una particina accanto a Warren Beatty che lo vuole con sé anche in Gangster story (1967) di Arthur Penn, esagitata celebrazione delle gesta criminali di Bonnie e Clyde rivestite di un’aura di ribellione politica. Il successo del film gli apre le porte degli studios. Me è a Popeye Doyle di Il braccio violento della legge (1971) di William Friedkin che deve la sua fama consacrata dall’Oscar per il miglior attore. Nell’agente della narcotici che dà la caccia alla gang marsigliese è indimenticabile. Brutale, violento, intollerante, cova la rabbia nevrotica di chi combatte una guerra personale fatta di attese e di inseguimenti.

Nella stagione del post-Watergate, è Francis Ford Coppola che gli offre con La conversazione (1974) uno dei ruoli più complessi. Niente di eroico nell’esperto di intercettazioni, vestito con un impermeabile di plastica, ossessionato dal proprio lavoro. Ma quando continua a riascoltare le registrazioni dell’ultimo caso affiora inatteso il senso di responsabilità che fa di lui un essere umano in tutta la sua vulnerabilità. Lo scenario si fa ancora più cupo in Bersaglio di notte (1975) di Penn, in cui il detective privato entra in crisi senza riuscire a chiudere l’indagine. Tradito da tutti, anche dalla moglie, gira a vuoto fino a arrendersi al caos, mentre la società americana ha ormai perduto l’innocenza.

Nei decenni successivi conferma la sua versatilità con il focoso ex amante di Gena Rowlands in Un’altra donna (1988) di Woody Allen che dice di lui: “È elettrizzante, ha una marcia in più”. Lo sceriffo sadico e razzista di Gli spietati (1992) di Clint Eastwood gli fa guadagnare l’Oscar per l’attore non protagonista.

Nel corso della sua lunga carriera pochi hanno saputo cavalcare come lui le frontiere dei generi in decine e decine di titoli in cui padroneggia con sorniona duttilità una folta galleria di personaggi ambigui, spesso sgradevoli, sospesi tra violenti sfoghi d’ira e trattenute suscettibilità.

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