Gene Tierney, la bellezza enigmatica di una diva tormentata

by Orio Caldiron

È una notte di pioggia. Il tenente Mark McPherson è solo nell’appartamento di Laura. Sta indagando sull’omicidio della ragazza sfigurata da un colpo di fucile. Mark ha bevuto troppo e si è addormentato sotto il grande ritratto di lei appeso al muro. Se ne è innamorato pur avendola conosciuta solo attraverso i ricordi di altre persone, gli arredi dell’appartamento, i vestiti, il profumo, la sua canzone preferita rimasta nel grammofono. Quando Laura rientra a casa, la sua improvvisa apparizione in impermeabile bianco sembra un sogno, come se il desiderio di McPherson l’avesse fatta tornare in vita.

La segreta magia di Laura – sospesa tra presenza e assenza, realtà e immaginazione – fa il suo ingresso in Vertigine (1944) di Otto Preminger a oltre metà film, entrando per sempre nel mito. Nel firmamento delle stelle, l’immagine del fantasma, del revenant, sembra il contrassegno irripetibile e sfuggente di una carriera destinata all’incompiutezza, nonostante gli incontri clamorosi con partner come Tyrone Power, Henry Fonda, Rex Harrison, Clark Gable, Humphrey Bogart. Senza contare gli amori sfortunati per John Fitzgerald Kennedy e Alì Khan o le brucianti fragilità della sua vita privata che sin da metà degli anni cinquanta la inducono a entrare e uscire dalle cliniche per malattie mentali.

Per Gene Tierney – nata il 19 novembre 1920 a Brooklyn e morta il 6 novembre 1991 a Houston – non era stato difficile arrivare sul set. Nel gruppo delle Fox Girls, accanto a Linda Darnell, Anne Baxter, Maureen O’ Hara, Betty Grable, la sua bellezza adolescenziale tra ambiguità e innocenza si era imposta già nei primi film dell’inizio quaranta, da La via del tabacco di John Ford a L’inferno del deserto di Henry Hathaway, da I misteri di Shanghai di Josef von Sternberg a Il figlio della furia di John Cromwell, in cui l’ipocrisia hollywoodiana le riserva ruoli di selvaggia disinibita, torbida mezzosangue, indigena sensuale, accentuando il suo esotismo dagli zigomi sporgenti.

Se il cielo può attendere (1943), la commedia faustiana di Ernst Lubitsch, sublima l’inquietudine dell’attrice nel personaggio riconciliato della moglie-madre, Femmina folle (1945) di John M. Stahl delinea con febbrile partecipazione e fiammeggianti cromatismi la delirante nevrosi di una complessa figura di donna cannibalica, gelosa fino all’omicidio, segnando un memorabile punto d’arrivo nelle vicende del melodramma americano. La bellezza enigmatica di Gene Tierney risalta anche in Il fantasma e la signora Muir (1947) di Joseph L. Mankiewicz, un “gotico” dai tratti surreali e fantastici che ripropone con eleganza i temi insoliti della solitudine, del sogno, dell’amore al di là del tempo.

Nessuno meglio di Preminger riesce a suggerire lo scenario di apparenze e inganni tipico del noir come in Il segreto di una donna (1949), dove Gene diventa ancora una volta il bersaglio di oscure minacce, tra malattie e ossessione. La trilogia si conclude con Sui marciapiedi (1950), in cui Laura ritrova finalmente Mark McPherson-Dana Andrews, sullo sfondo di una New York brulicante di bische clandestine, palestre equivoche, squallidi scantinati, reduci allo sbando, gangster in paranoia, poliziotti corrotti, mentre sembra sentire in lontananza le note della celebre melodia di David Raskin e Johnny Mercier che l’inseguiva dappertutto come una sigla musicale: “Il volto intravisto nella luce velata / I passi che risuonano nella memoria / La risata che scoppia in una notte d’estate / Gli occhi così familiari / Il primo e ultimo bacio / Era Laura. Ma non era che un sogno”.  

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