Gloria Grahame, la cattiva ragazza del noir americano

by Orio Caldiron

Nel segno del noir si svolge quasi tutta la breve ma smagliante carriera di Gloria Grahame – nome d’arte di Gloria Hallward, nata a Los Angeles il 28 novembre 1923 e morta a New York il 5 ottobre 1981 – una delle più singolari incarnazioni della bad girl in cui rivive l’immagine della donna fatale d’antan ma con toni più foschi e più moderni bagliori. Negli anni cinquanta la sua esibita sensualità non esclude l’intelligenza con cui un’attrice dotata ma non bellissima, almeno secondo i canoni dell’epoca delle maggiorate, ripropone lo stereotipo della seduttrice affidandosi al modo languido di camminare, agli occhi verdi da gatta, alla voce roca e alle labbra perennemente imbronciate.

Figlia di un’attrice teatrale, nonché insegnante di recitazione, e di un architetto, debutta giovanissima a Broadway prima di arrivare al cinema. Si fa notare con Il diritto di uccidere (1950) di Nicholas Ray, il primo dei suoi quattro mariti da cui sta per divorziare. Nel ruolo della vicina di casa di un tormentato Humphrey Bogart, è una single inquieta e appassionata, in bilico tra dedizione e sospetto, rabbia e tenerezza. Le sue qualità di interprete sensibile si impongono nel ruolo della moglie del vanesio scrittore in ascesa di Il bruto e la bella (1952) di Vincente Minnelli, una presenza vivace e maliziosa che le fa conquistare il suo primo e unico Oscar come attrice non protagonista.

Il grande caldo

Solo Fritz Lang con il suo cinema emozionante e rigoroso le offre l’occasione di dar vita alle due interpretazioni più memorabili. Nella città sopraffatta dalla violenza di Il grande caldo (1953), Debby, la donna di Lee Marvin – il gangster che l’ha sfigurata gettandole in faccia il caffè bollente – non è soltanto la ragazza di vita irrecuperabile, ma anche una delle figure femminili più intense del periodo, sospesa tra ingenuità e amarezza. Se il volto diviso in due dalla benda che le copre il lato sinistro è ormai il contrassegno proverbiale con cui entra per sempre nella storia del grande cinema, quando muore le sue cicatrici restano nascoste sotto il visone consentendole di diventare in tutta la sua vibrante avvenenza la vera eroina del film. Nel clima claustrofobico delle ferrovie di La bestia umana (1954), Vicki accentua il côté spudoratamente seduttivo ma alla fine non può resistere alla pulsione devastante del delitto che prevale su tutto, mentre le luci tagliano le tenebre implacabili come un giudizio morale.

Se si esclude Oklahoma! (1955) di Fred Zinnemann, il musical in cui appare nei panni più frivoli della “ragazza che non sa dire di no”, nella sua carriera prevalgono i personaggi negativi, ambigui, morbosi. Come l’amica che chiede a Jack Palance di schiacciarla quando l’abbraccia (So che mi ucciderai),la moglie che manipola slealmente il marito Richard Widmark (La tela del ragno), l’ereditiera che cerca di sabotare il matrimonio di Robert Mitchum (Nessuno resta solo). Fedele a se stessa anche la sua ultima apparizione importante in Strategia di una rapina (1959) di Robert Wise, dove è ancora una volta la vedova nera del noir che, a letto con il gangster Robert Ryan, gli chiede di eccitarla raccontandole cosa si prova quando si uccide.

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