Joan Crawford, la perfida di Hollywood da Baby Jane a Mammina cara

by Orio Caldiron

Sul finire del muto, quando dal Texas approda giovanissima a Hollywood, la prima immagine di Joan Crawford – nata a San Antonio, in Texas, il 23 marzo 1904 e morta a New York il 10 maggio 1977 – è quella della “flapper” dalla vitalità scatenata e plebea, la frivola ballerina dell’età del jazz disposta a tutto pur di sfondare.

Anche a sottomettersi alle regole ferree della Metro Goldwyn Mayer, che nel giro di qualche anno fa di lei il perfetto prodotto dello Studio System. Se il trucco sottolinea i grandi occhi lucenti e allarga la linea della bocca, il geniale Adrian, lo stilista principe della major, accentua nei suoi abiti l’impronta mascolina, mette in rilievo le spalle quadrate, segnando la moda di un’epoca. Nessuna più di lei incarna in questo periodo l’icona del divismo in cui l’apparenza sostituisce la realtà, l’artificio sta al posto dell’emozione: “Non esco mai se non nei panni di Joan Crawford, la diva. Se volete vedere la ragazza della porta accanto, andate a bussare alla porta accanto”.

Sono decine e decine i film degli anni trenta in cui, dattilografa, commessa, pupa del gangster, figlia del cuoco, è accanto a Wallace Beery (Grand Hotel), Clark Gable (L’amante, Incatenata, La donna è mobile, Amore in corsa), Robert Montgomery (Non più signore), Franchot Tone (Troppo amata), Spencer Tracy (La donna che voglio), prima di entrare a far parte del cast tutto al femminile di Donne (1939), la maliziosa commedia di un George Cukor in gran forma, più perfido che mai. Crystal, la rubamariti che lancia sguardi melliflui da dietro il banco dei profumi, sembra già un personaggio del woman’s film del decennio successivo.

Il passaggio dalla Metro alla Warner contrassegna la nuova stagione dell’attrice inaugurata da Il romanzo di Mildred (1945) di Michael Curtiz, il capolavoro che le valse l’Oscar per il memorabile ritratto della madre in carriera ossessionata dalla volontà di assicurare alla figlia una vita migliore. Sulla stessa lunghezza d’onda negli anni seguenti un piccolo gruppo di film tra mélo e noir – da Perdutamente (1946) di Jean Negulesco a Anime in delirio (1947) di Curtis Bernhardt, da L’amante immortale (1947) di Otto Preminger a Viale Flamingo (1949) di Curtiz e So che mi ucciderai (1952) di David Miller – disegna con rinnovata energia l’identikit grintoso e contraddittorio della donna cinica e romantica, vulnerabile e pericolosa, intraprendente e moderna che rivendica il proprio diritto alla felicità.

Ancora un’eroina combattiva nell’universo maschile del western Johnny Guitar (1954), il melodramma fiammeggiante di Nicholas Ray in cui “sembra irreale come il fantasma di se stessa. La bellezza ha invaso i suoi occhi, i suoi muscoli, il suo volto. Volontà di ferro, viso d’acciaio. La sua recitazione contratta, tesa, spinta fino al parossismo, costituisce, essa sola, uno spettacolo” (François Truffaut). Negli anni sessanta Che fine ha fatto Baby Jane? (1962) di Robert Aldrich lo scenario claustrofobico, in cui si misura con un altro mostro sacro come Bette Davis, anima il cupo teatro della crudeltà di una sorta di film postumo. Si salva solo perché il match all’ultimo sangue con la rivale di sempre strizza l’occhio agli splendori e alle miserie dell’età d’oro del divismo hollywoodiano .

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