John Garfield, il divo ribelle delle periferie urbane e dei poveri che visse sulla sua pelle miseria e riformatorio

by Orio Caldiron

Sul finire degli anni trenta si affaccia nel cinema americano la figura del ribelle in cui si riflettono il malessere delle periferie urbane e l’irrequietezza della strada tra disadattamento e criminalità. Nessuno la incarna meglio di John Garfield che – nato il 4 marzo 1913 nel ghetto ebraico dell’Est Side di New York da una famiglia di immigrati d’origine russa – ha vissuto sulla sua pelle le esperienze della miseria e del riformatorio, mentre gli altri city boys dalla faccia sporca, i Cagney, i Bogart, si limitano soltanto a rappresentarle sullo schermo.

Scoperta la propria precoce vocazione per il palcoscenico, frequenta varie scuole d’arte drammatica fino a far parte del Group Theatre che negli anni della crisi economica e delle appassionate dispute ideologiche è la compagnia più innovativa sul piano artistico e sociale.

Scritturato dalla Warner, si fa notare in una decina di film in cui si delinea il personaggio ombroso e autodistruttivo del perdente, dal musicista in crisi di Quattro figlie (1938) di Michael Curtiz all’aggressivo mitragliere di Arcipelago in fiamme (1943) di Howard Hawks. Ma il grande successo arriva soltanto con Il postino suona sempre due volte (1946) di Tay Garnett, la terza versione del romanzo di James M. Cain, che inaugura l’ultima e più significativa stagione dell’attore. Il vagabondo che si lascia catturare da Lana Turner, la gelida dark lady vestita di bianco, non abbandona mai la smorfia insolente dell’uomo sopraffatto dal destino.

Il corpo proletario di John Garfield – rude, massiccio, sfrontato – è al centro di Anima e corpo (1947) di Robert Rossen, in cui la boxe è il mezzo privilegiato di promozione sociale per chi viene dal ghetto. Almeno fino a quando il protagonista non si ribella all’impresario corrotto che vende gli incontri dicendogli: “Che cosa potere farmi, uccidermi? Tutti dobbiamo morire”. Sullo sfondo dei grattacieli di Wall Street dove la distinzione tra malavita e mondo degli affari è sempre più sfumata, l’ambiguo avvocato di Le forze del male (1948), il noir politico di Abraham Polonsky, è un’altra vittima del successo pagato con la perdita di sé. Non è molto diverso il loser cinico e disilluso di Golfo del Messico (1950) di Curtiz, la seconda e più fedele versione di Avere e non avere di Ernest Hemingway, a cui l’attore in stato di grazia presta la grinta di duro e la carica sessuale, ma anche la sua vulnerabilità.

Nel piccolo delinquente coinvolto in una rapina di Ho amato un fuorilegge (1951) di John Berry, il suo ultimo film, la nevrotica inadeguatezza del gangster braccato che prende in ostaggio una famiglia operaia è resa con la partecipe immedesimazione di chi è incalzato dall’angoscia. Nel clima minaccioso del maccartismo, sconvolto dal dover testimoniare, muore d’infarto il 21 maggio 1952 a trentanove anni, la notte prima di deporre davanti all’Huac, l’House of Un-American Activities Committe.

Nella modernità del divo dei poveri, nel suo stile istintivo e intenso si annuncia la nuova generazione di attori, da Marlon Brando a James Dean, da Montgomery Clift a Paul Newman.

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