La verve scatenata di Lilia Silvi, la stella del divismo autarchico fascista di Cinecittà

by Orio Caldiron

Quando alla fine del 1938 il regime fascista inaugura le misure protezionistiche per limitare l’ingresso nel paese della produzione straniera, le grandi case americane si ritirano dal mercato italiano lasciando un vuoto che viene colmato dal progressivo aumento dei film nazionali. È il questo periodo che decolla il divismo autarchico, deciso a sostituire nel cuore degli spettatori i divi di Hollywood, fino a ieri i beniamini del pubblico, con i divi di Cinecittà.

Nel tentativo di rinnovare i quadri, il cinema italiano favorisce il debutto di una nuova generazione di attrici da Carla Del Poggio a Irasema Dilian, da Paola Veneroni a Adriana Benetti, da Valentina Cortese a Chiaretta Gelli. Tutte giovanissime, piene di vita e di entusiasmo. Ma nessuna ha la grinta di Lilia Silvi – nata a Roma il 23 dicembre 1921, muore a Nettuno il 27 luglio 2013 – che nel giro di pochi anni si afferma come una attrice brillante dalla faccia espressiva e dalla verve scatenata. Bambina prodigio, studia musica e danza, ma la sua passione è il cinema: “Io volevo sfondare, io dovevo fare il cinematografo per cui mi infilavo sempre dappertutto, litigando con Pappalardo, l’allora portiere di Cinecittà. Come vedevo la possibilità m’infilavo. Non m’importava neanche la paga, mi ci buttavo a corpo morto”. Si nota appena in Il Signor Max (1937) di Mario Camerini, dov’è la fioraia che consiglia le orchidee al galante Vittorio De Sica in crociera, ma appare anche in Partire (1938) di Amleto Palermi e Il segreto di Villa Paradiso (1939) di Domenico M. Gambino nei ruoli marginali di battagliera dattilografa e di benzinaia in tuta. Il suo tipico personaggio di ragazza terremoto si delinea soltanto con Assenza ingiustificata (1939) di Max Neufeld, divertente commedia dei telefoni bianchi in cui è la pestifera compagna di classe di Alida Valli.

IL PRIMO SUCCESSO

Il primo successo arriva con la trasferta similamericana di Dopo divorzieremo (1940) di Nunzio Malasomma. Sceneggiato da Sergio Amidei – il futuro padre del neorealismo che per primo intuisce le potenzialità della coppia Silvi-Nazzari – si rivede oggi con piacere come tanti altri titoli della commedia dell’epoca. Il cinema dei telefoni bianchi ha un debole per l’evasione, ma evade nell’altrove del sogno. L’american dream? Solo in parte, perché l’America autarchica è un’America caramellosa e manierata, che sconfina nella parodia. Il cinema della mistificazione racconta strabicamente l’“altro mondo” prendendosi libertà del tutto impensabili in questo, come il divorzio. Su “La Stampa” del 1° novembre 1940 Mario Gromo scrive: “Il film è la rivelazione di Lilia Silvi. Era apparsa in qualche particina di scorcio, ora produttore e regista hanno creduto in lei, ne hanno fatto una protagonista, e hanno avuto ragione. La Silvi è infatti uno schiettissimo, autentico temperamento. Ancora informazione, un po’ acerbo, e al tempo stesso fin troppo sicuro di se, ma d’un talento comico indiscutibile. Tra passi rapidissimi, talvolta fulminei, sono da lei affrontati con agilità da virtuoso, e soprattutto le giova, dinanzi all’obiettivo, quel suo imperturbabile poter pensare a sé, soltanto a se stessa, e al suo lavoro. È nata, insomma, per fare l’attrice. A lei, ai suoi produttori e ai suoi registi in confermarcelo”.

LA RAGAZZA TERREMOTO

Naturalmente la ragazza terremoto tiene testa anche a Sergio Tofano (Giù il sipario), Nino Besozzi (Barbablù), Carlo Ninchi (La vispa Teresa), altrettante prove di quella spensierata duttilità e di quella contagiosa allegria che segnano fin dall’inizio l’insolito personaggio che qualcuno avvicina alle fidanzatine americane adorabili e irritanti come Deanna Durbin. Il telefono bianco si tinge di rosa in Violette nei capelli (1942) di Carlo Ludovico Bragaglia, uno dei maggiori successi di pubblico degli anni quaranta, struggente “Piccole donne crescono” in cui le gioie e le delusioni di Lilia Silvi, Carla Del Poggio, Irasema Dilian, le tre ragazze gaie e sognanti nonostante le crisi, sono viste dalla parte di lei. Inutile dire che quando le tre amiche restano sole a affrontare le difficoltà, la più intraprendente è lei, la piccola Carina pronta a far da sorella maggiore, a dar consigli d’amore, a risolvere problemi. Il rischio di cadere nella maniera, ripetitiva e leziosa, c’era fin dall’inizio, come aveva intuito Adolfo Franci sul’ “Illustrazione Italiana” del 30 novembre 1941: “Se ne avessi l’autorità vorrei dare a Lilia Silvi un consiglio. Di non lasciarsi incantare da chi è disposto a passargliele tutte lisce, in virtù della sua giovinezza e della sua indubbia bravura. Con lei, nel nostro cinema, tornò a rivivere la monella, una monella che, se Dio vuole, aveva l’età giusta delle monellerie. E parve un miracolo e fu certo una festa per tutti vedere un giorno muoversi sullo schermo con tanta naturalezza e spigliata eleganza questa attrice non bella ma graziosa e simpatica, che aveva l’età dei suoi personaggi. Purtroppo da quel momento Lilia Silvi fu la monella in titolo del cinema italiano. Non si può non aver avvertito il pericolo che corre. Di cadere nel manierato, nel falso, di passare la misura. Restituendoci, alquanto sciupata e sotto forma di caricatura la primitiva immagine che aveva se non altro il dono della freschezza”.

DALLA BISBETICA DOMATA AI GIORNI FELICI

La grande affermazione arriva con Scampolo di Malasomma (1941) che offre all’attrice l’occasione di dar vita alla piccola stiratrice della commedia di Niccodemi con lo slancio estroso e appassionato di chi si riconosce nel personaggio e sa dosare ingredienti patetici con le sottolineature brillanti. Senza le smorfie e le boccacce che assieme alla sua travolgente simpatia hanno conquistato gli spettatori più diffidenti. Il clima è ormai cambiato. Si continua a sognare a occhi aperti ma con la serietà che gli anni di guerra richiedono. Il personaggio di Scampolo, vecchio cavallo di battaglia del repertorio teatrale, ne esce rinnovato, ci guadagna in umanità e freschezza.

Non bisogna dirlo a Shakespeare – nei titoli di testa il suo nome del resto non appare perché l’Italia è in guerra con la Gran Bretagna – ma la grande commedia di Petruccio e Caterina ripresa in abiti moderni in La bisbetica domata (1942) di Ferdinando M. Poggioli, sembra fatta apposta per Lilia Silvi, segna il traumatico passaggio dall’adolescenza alla maturità. Giorni felici (1943) di Gianni Franciolini rappresenta l’ultima occasione per la turbolenta monella di mettere la testa a posto e sorprendere ancora una volta il pubblico con l’immagine sorridente e romantica della ragazza innamorata, in una delle sue più felici prove d’interprete ormai matura.

Quando nel dopoguerra escono gli ultimi film dell’attrice, da Il diavolo in collegio (1944) di Jean Boyer a Biraghin (1946) di Carmine Gallone, si capisce subito che sono fuori tempo massimo. Il cinema ha voltato pagina e la sua breve parabola è ormai finita. Il grande successo di una decina di film le hanno assicurato un’enorme popolarità, fino a farne un’immagine insolita e irripetibile del divismo anni quaranta, in cui si ritrovano il costume dell’epoca e i suoi modelli di comportamento, i rapporti conflittuali tra uomo e donna in una società maschilista, la mitologia sentimentale e la rimozione del sesso. Altrettante chiavi di lettura per rivisitare un capitolo del cinema all’antica italiana, il cinema degli operosi artigiani, tutto da scoprire, senza dimenticare che, a sorpresa, dopo decenni di assenza dal set aveva partecipato al film Gianni e le donne (2010) di Gianni Di Gregorio.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.