Mae West: la stella disubbidiente delle notti di Broadway e Hollywood

by Gabriella Longo

Agitata anche la conclusione di questa strana estate, che mette un punto con nuove strette sulle discoteche e la vita notturna; un dibattito sulle conseguenze di un anno a mobilità ridotta perpetuamente alimentato, che fa venire alla mente storie scalmanate datate un secolo fa, quando il ballo aveva così prepotentemente rappresentato i costumi della “generazione perduta” venuta fuori dalla guerra e la sala da ballo era, a tutti gli effetti, diventata il centro della vita sociale.

Storie dell’altra parte dell’Atlantico, ambientate nel decennio folle dei “giovani tristi” di F. Scott Fitzgerald, sgusciate da un club di Harlem al ritmo delle orchestrine dixieland che allora sfoggiavano i migliori musicisti, da Jerry Roll Morton a Fletcher Henderson, da Louis Armstrong a Earl Hines. Ma erano anche gli anni di Mary Jean West – che lo scorso 17 agosto avrebbe spento 128 candeline, star del vaudeville nonché regina degli scandali in bianco e nero, a cavallo fra proibizionismo e la porta dell’ufficio Hays, da quando, partita da Broadway, arrivò a Hollywood esibendo un carnet fitto fitto da ragazza per male che in passato non si era fatta mancare nemmeno la prigione.  

Prima di diventare la punta di diamante della Paramount, era stata la giovanissima protagonista dei musical prodotti da Florenz Ziegfeld, ed è là che aveva lanciato un ballo che avrebbe rapidamente scandalizzato e sedotto anche l’Europa. Si chiamava “Shimmy”, un’evoluzione del foxtrot, che Mae – questo il nome con cui la ricordiamo tutt’oggi- vide per la prima volta negli anni ’10 a Chicago: “andammo all’Elite No. 1 Club. C’era una coppia di neri che ballava quello che inizialmente era chiamato Shimmy-shawobble. Era divertente, ma con sé aveva anche un’agonia dolorosa, nuda e sensuale” (lo ha scritto nella sua seconda autobiografia). Nel 1905 Mae West lo esegue durante il suo spettacolo di burlesque Baby Vamp, e così shimmy è già un tormentone, molto prima che Gilda Gray, la star delle Ziegfeld Follies, si meritasse la nomina di “Shimmy Queen”. Da quell’esibizione-evento, uno scrosciare di stili forgiati in seno alla comunità afroamericana e prontamente nobilitati a Broadway, inarrestabile almeno sino al giovedì nero dei mercati.

Ma Mae West avrebbe continuato a ballare ancora, scuotendo le spalle per tutta Hollywood, dove impose, anche se a fatica, fra braccaggi delle legioni cattoliche e i pedinamenti dei giornali, il suo marchio di fabbrica, e rispondendo ai suoi detrattori, sempre con audace ironia: “non disturbare, salvo in caso d’incendio”, recitava un cartello appeso alla porta del suo lussuosissimo camerino-boudoir. Arrivò lì nel 1932, quando la giovane fabbrica dei sogni aveva fatto sentire la sua prima voce già da un pezzo (fu quella di Al Jolson ne Il cantante di Jazz, 1927), e non ci volle molto perché la sua si distinguesse molto forte e chiara in mezzo al coro confuso che era diventata quella babilonia del cinema: “Mae non riuscirebbe a cantare una ninnananna senza renderla sexy”, scriveva «Variety» circa il suo primo ruolo da protagonista nel night club di Lady Lou (1933), film che lei stessa adattò  da Diamond Lil, sua fortunatissima commedia musicale.

Non solo: per questo film Mae pretendeva Cary Grant come partner, e lo ottenne, attestandosi, come una delle rare dive di Hollywood ad avere il privilegio di cucirsi gli spettacoli addosso. Da qui in avanti, i guai più grossi con i censori, ai quali non piacque il modo in cui Lady Lou rispondeva ai gangster, in particolare sfoggiando la battuta che sarebbe poi sopravvissuta a Mae stessa e in futuro variamente reinventata e riutilizzata dalla settima arte: “E’ una pistola che hai lì in tasca, o sei semplicemente contento di vedermi?”.

Il suo canto, la sua danza, il modo anticonformistico, irriverente col quale riempiva il cinema americano di jazz, boxeur, uomini loschi e nightclub fino a farlo traboccare, le valsero infinite altre epurazioni e santificazioni. Non è un peccato, la traduzione italiana di It Ain’t no sin, ovvero titolo del suo terzo film che venne prontamente cambiato in Belle of the Nineties (1934), proprio perché agli occhi dei boicottatori, un peccato lo era e come. Quando gigantesche insegne ne annunciavano l’uscita, all’affascinante personaggio di Ruby Carter era anche già toccato di sposare Tiger Kid alla fine del film, in un contrasto rumorosissimo rispetto al copione originario che Mae aveva pensato e scritto per se stessa.

Dopo molti altri discussissimi film con la Paramount, Mae passò alla Universal, ma si sa, se le vecchie stelle di Hollywood sono sopravvissute al sonoro, sarà stato forse altro a far affievolire la loro luce. I film che girò in seguito, con i copioni ripuliti, persero mordente. Ma ormai ricca, adorata, temuta tanto quanto invidiata e perseguita, nel 1950 Mae avrebbe abbandonato gli schermi (ai quali non ci si sarebbe riaffacciata che dopo trent’anni in due pellicole) per tornare ai palcoscenici, rifiutando tanti film, tra i quali Sunset boulevard di Billy Wilder, poi con successo affidato a Gloria Swanson. Dotò della carica West tutto ciò con cui entrò in contatto, finanche le sue due bellissime autobiografie – The constant Sinner (1949), Goodnes had nothing to do with it (1959) -, che meglio non avrebbero potuto raccontarla sin dai titoli eloquenti.

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