Né giovane né bello, ma insostituibile: Philippe Noiret il frontalier del cinema francese ed italiano, che non è mai diventato divo

by Orio Caldiron

Senza mai diventare un divo, è il tipico frontalier che nel pendolarismo tra Francia e Italia si è imposto con cinquant’anni di carriera e centotrenta film come uno dei più grandi e popolari attori europei. Philippe Noiret – nato a Lille il 1° ottobre 1930 e scomparso a Parigi il 23 novembre 2006 – dopo i corsi d’arte drammatica, approda per parecchie stagioni al Théâtre National Populair di Jean Vilar, recitando in una ventina di spettacoli, da Shakespeare a Molière, da Čechov a Jarry, senza trascurare la brillante attività cabarettistica cui deve la sua prima notorietà televisiva.

Né giovane né bello, al cinema si fa apprezzare in un gran numero di titoli, più “cinema di papà” che nouvelle vague, ma solo negli anni settanta arriva la consacrazione definitiva con il fosco, allucinato La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri dove impersona uno dei quattro amici che decidono di suicidarsi in un’orgia di cibo e di sesso in una villa fuori Parigi. Il suo personaggio è forse quello che meglio incarna il rifiuto della maturità, l’abbandono alla regressione.

Solo un paio d’anni dopo è l’indimenticabile Perozzi di Amici miei (1975) che con un gruppo di professionisti cinquantenni organizza le “zingarate”, le tremende beffe in cui sfogano lo spirataccio da maledetti toscani e il gusto sarcastico dell’esorcismo. Il film di Mario Monicelli – a cui Germi, scritta la sceneggiatura, ha passato il testimone – è l’impietoso testamento della commedia all’italiana di cui l’attore è ormai una delle maschere più incisive e riconoscibili. Nel frattempo è avvenuto l’incontro con Bertrand Tavernier di cui nel corso di quindici anni dal ’74 all’89 diventa l’attore-feticcio. La loro intesa anima un universo borghese otto-novecentesco dall’impeccabile, classica scansione narrativa, dove si impongono i rapporti tra padre e figlio (L’orologiaio di Saint-Paul), la dialettica tra giustizia di classe e squilibrio borderline (Il giudice e l’assassino), la deriva dell’abiezione nello scenario coloniale (Colpo di spugna), la vita militare ricondotta all’identificazione dei cadaveri e alla meschinità dei numeri (La vita e nient’altro).

L’amico francese dalla proverbiale cordialità non interrompe mai il rapporto con il cinema italiano e lavora con i nostri migliori registi, da Monicelli (Speriamo che sia femmina) a Scola (La famiglia), da Rosi (Tre fratelli), a Zurlini (Il deserto dei Tartari), a Montaldo (Gli occhiali d’oro). Il proiezionista Alfredo di Nuovo cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore che accompagna il piccolo Salvatore nei riti del cinema della memoria è uno dei suoi personaggi più strepitosi, più vivi e umani, entrato ormai nel mito. Come capita al suo Pablo Neruda di Il postino (1994) di Michael Radford, che condivide con uno struggente Massimo Troisi la forza della poesia. Sposato fin dagli anni cinquanta con l’attrice Monique Chaumette, negli ultimi tempi viveva soprattutto nella casa di campagna a Carcassonne con i suoi amati cani e cavalli.

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