Peter Sellers, dissennato e geniale

by Orio Caldiron

Subito dopo il servizio militare nella Raf, in cui il caporale Peter Sellers intrattiene i suoi compagni con le imitazioni dei superiori, la sua comicità irriverente esplode nel ’51 alla radio in The Goon Show, il programma della Bbc che va in onda per tutto il decennio con grande successo, soprattutto tra i giovani, aprendogli le porte del mondo dello spettacolo.

Solo a trent’anni – era nato l’8 settembre 1925 a Southsea, nell’Hampshire, da una coppia di attori di varietà – si afferma al cinema con La signora omicidi (1955), all’ombra di Alec Guinness, che considerava il suo modello.

Nello scorcio finale degli anni cinquanta si fa applaudire in più di un titolo della commedia britannica, ma soltanto l’incontro con Stanley Kubrick lo fa uscire dai confini insulari della satira targata Ealing per diventare uno dei volti più significativi del cinema contemporaneo. Il viscido, camaleontico Quilty di Lolita (1962) e il triplo ruolo di Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964), dal Capitano inglese Mandrake al Presidente Usa Muffley e al suo consigliere anglotedesco Dr. Strangelove con la mano artificiale che scatta nel saluto nazista, gli consentono di liberare l’istrionico trasformismo di una maschera beffarda, affacciata sull’abisso della follia atomica.

Il dottor Stranamore

Nel frattempo La pantera rosa (1963) di Blake Edwards inaugura la fortunata saga giallorosa che gli assicura un’enorme popolarità. L’imbranato ispettore Clouseau che parla in franglais si muove nello spazio dell’incongruo più dissennato, attingendo a piene mani dallo slapstick americano, soprattutto da Stan Laurel e Oliver Hardy, per riproporre la comicità catastrofica di un mondo in lotta con se stesso, segnato dalla logica unidimensionale del cartoon.

Ma il capolavoro del comico inglese è Hollywood Party (1968) ancora di Blake Edwards, mai così metacinematografico. Sin dall’inizio quando manda all’aria il set del film coloniale alla Gunga Din dove fa la comparsa, per imbucarsi poi nella festa organizzata nella villa del produttore, l’indiano Hrundi V. Bakshi, tra una gaffe e un inchino, un’infrazione e un malinteso, è una presenza minacciosa e travolgente, il cerimonioso e letale testimonial del caos, mentre la matematica delle gag, i ritmi insinuanti del sabotaggio permanente procedono implacabili verso l’onirica distruzione finale, in cui la volgarità hollywoodiana affoga in un mare di schiuma.

L’ultima apparizione memorabile è quella di Oltre il giardino (1979) di Hal Ashby, dove il giardiniere analfabeta scambiato per un maestro di saggezza anima un’inquietante rappresentazione della società americana. Sposatosi quattro volte, i suoi figli Michael e Sarah li ha avuti dalla prima moglie, muore il 24 luglio 1980 a Westminster per un infarto. Era solito dire: “Sono tutti e nessuno. Datemi un personaggio e sarò qualcuno, toglietemelo e non resterà nulla”, dove non si avverte tanto il facile pirandellismo dell’uno, nessuno, centomila, ma piuttosto l’angoscia del grande attore alle prese con il vuoto.

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