Richard Burton, il divo bello e dannato

by Orio Caldiron

Straordinario animale da palcoscenico dall’ipnotico magnetismo e dalla voce leggendaria, a teatro impersona un’intera schiera di personaggi shakespeariani senza trascurare la commedia e persino il musical, mentre al cinema il grande istrione è più un divo che un attore, sperperando il talento nella chiassosa biografia a alto tasso alcolico di un’icona mediatica. Richard Burton è il nome d’arte di Richard Walter Jeankins, nato a Pontrhydyfen nel Galles, Gran Bretagna, il 10 novembre 1925 da una famiglia di minatori con tredici figli.

Il nome lo deve al maestro Philip Burton che lo adotta sin da bambino e lo indirizza negli studi, facendolo arrivare a Oxford che frequenta per sei mesi. Debutta giovanissimo in teatro ma, durante la guerra, entra in aviazione e ritorna sul palcoscenico solo nel ’48, affermandosi come una delle rivelazioni della scena inglese.

Scritturato dalla Fox, approda a Hollywood. Si fa apprezzare nel gotico Mia cugina Rachele (1953) di Henry Koster e ha una piccola parte quasi autobiografica di pilota della Raf in Il giorno più lungo (1962) di Ken Annakin, Bernhard Wicki e Andrew Marton. Il successo di La tunica (1953), anch’esso di Koster, il primo cinemascope in cui è il centurione romano che vince ai dadi la tunica di Gesù, ne fa il protagonista ricorrente dei kolossal in corazza e gonnella. Il più imbarazzante è Alessandro il Grande (1956) di Robert Rossen con il condottiero macedone cotonato biondo. Si inserisce nella ripresa del cinema britannico con I giovani arrabbiati (1959) di Tony Richardon, uno dei titoli più noti del free cinema con cui l’intesa è però di breve durata.

Il peggio di sé lo dà in Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, dove “recita malissimo, comportandosi come Bob Hope nella giungla. Si infila fazzolettini colorati nell’ascella della corazza, grida in tutte le direzioni e lo si confonde continuamente con le comparse” (Alberto Arbasino). Sul set del film decolla la sua love story con Elizabeth Taylor che tra un paio di matrimoni e un paio di divorzi durerà fino al 1976, animando le cronache dell’epoca a caccia di gossip. Accanto alla star dagli occhi viola appare in una decina di film per lo più dimenticabili. Non ha successo neppure il tentativo di portare sullo schermo anche come regista Il dottor Faustus (1967), in cui Liz è Elena di Troia. Si salvano soltanto Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966) di Mike Nichols, scatenato gioco al massacro di una coppia di coniugi di mezza età, e La bisbetica domata (1967) di Franco Zeffirelli, dove la guerra dei sessi si risolve nella smagliante suggestione visiva. In entrambi i casi ogni riferimento alla tempestosa vita privata dei protagonisti non è casuale.

Nello stesso periodo presta all’arcivescovo di Canterbury una maschera di tragica consapevolezza (Becket e il suo re) e, mentre furoreggia James Bond, smonta il mito dell’agente segreto rivelandone lo squallore (La spia che venne dal freddo). Nello scorcio finale della carriera, il livello si abbassa mentre prevale il gigionismo. L’eccezione più significativa è il gangster omosessuale di Il mascalzone (1971) di Michael Tuchner, una delle sue migliori interpretazioni. Ma ha i suoi estimatori anche lo psichiatra irriducibile di Equus (1977) di Sidney Lumet. Muore a Ginevra il 5 agosto 1984.

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