Sceneggiatrice, produttrice e regista: la storia di Ida Lupino

by Orio Caldiron

Senza mai diventare una star, Ida Lupino è uno dei temperamenti d’attrice-autrice più inquieti e originali della stagione del noir, la sola in grado di tener testa alle formule stereotipate degli Studios.

Nata a Londra il 4 febbraio 1918 da un’antica famiglia di attori di origine italiana – scomparirà il 3 agosto 1995 a Los Angeles, California – studia alla Royal Academy of Dramatic Art per esordire giovanissima in teatro. Scoperta da Allan Dwan, si trasferisce presto a Hollywood dove appare in una ventina di titoli prima di imporsi accanto a Humphrey Bogart in Una pallottola per Roy (1941) di Raoul Walsh col personaggio della donna del bandito, bocca dura ma cuore tenero, che le assicura la notorietà.

Sin dalla gelida governante di Tenebre (1941) di Charles Vidor, la galleria delle sue eroine coriacee ma fragili mette a fuoco la figura della donna volitiva con una propria morale, decisa a andare fino in fondo. Dalla disillusa pianista che nel bar di I quattro rivali (1948) di Jean Negulesco canta con voce inconfondibile la struggente “Again”, mentre Richard Widmark e Cornel Wilde si battono per lei, all’ambigua Lilli Marlowe di Dollari che scottano (1954) di Don Siegel, pronta a fuggire in Messico con il poliziotto corrotto Steve Cochran, senza dimenticare il malloppo. Ma la sua performance migliore resta quella di Neve rossa (1951) di Nicholas Ray, il noir tra urbano e rurale dove la sorella cieca dell’omicida insegna a vedere al violento Robert Ryan.

Nel frattempo con il secondo marito Collier Young fonda The Filmmakers, diventando produttrice, sceneggiatrice, regista. Nei suoi film a basso costo, non esita a affrontare temi scomodi come ragazze madri, stupro, polio, bigamia, senza indulgere alle convenzioni del mélo e allo schematismo della tesi. La preda della belva (1950) esorcizza con partecipe tenerezza il trauma della protagonista stuprata alla vigilia del matrimonio. La belva dell’autostrada (1953) ricostruisce con toni dimessi l’inquietante disavventura di due piccoli borghesi che danno un passaggio a un serial killer scambiandolo per un innocuo autostoppista. La grande nebbia (1953) è il più fenomenologico nel raccontare con sobria asciuttezza la vicenda del commesso viaggiatore che ha una moglie a San Francisco e un’altra a Los Angeles, illuminando con la sensibilità di uno sguardo altro l’assoluto anonimato del bigamo e la femminilità ferita delle due donne.

Se, popolare come attrice, in vita è sottovalutata come regista, le sue quotazioni sono oggi in rialzo anche grazie a estimatori d’eccezione come Martin Scorsese che la considera una delle voci più significative del cinema classico americano: “C’è una sensazione di dolore, di panico e di crudeltà che colora ogni inquadratura di questi film, ma vi si trova anche la mescolanza di precisione e compassione dell’attrice. Le sue eroine hanno sempre una grande dignità, così come la sua opera cinematografica. Contrassegnata dallo spirito di resistenza, con una straordinaria empatia per gli esseri fragili e per i cuori spezzati”.

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