Ti ricordiamo, sì, ti ricordiamo, Marcello Mastroianni

by Claudio Botta

Chissà come avrebbe vissuto lui, amante del cinema in sala, da ragazzino affascinato da miti come Clark Gable, Errol Flynn, Jean Gabin, John Wayne, Gary Cooper, Amedeo Nazzari, Fred Astaire, la nostra epoca di film trasmessi sulle piattaforme e sugli smartphone («Fellini mi diceva ‘una volta Marilyn Monroe la guardavamo alzando lo sguardo, adesso abbassandolo»). Marcello Mastroianni un mito lo è diventato presto, per la galleria straordinaria di personaggi interpretati, grazie all’alchimia creata con estrema e disarmante naturalezza con tutti i maggiori registi di epoche differenti (da Visconti a Fellini, da Monicelli a De Sica, da Germi a Ferreri, da Scola a Risi, da Polanski a Bellocchio, dalla Cavani a Comencini, da Angelopoulos a Michalkov, da Altman a de Oliveira, da Faenza a Tornatore, impossibile citarli tutti) e ad interpretazioni straordinarie puntualmente premiate con prestigiosi riconoscimenti (nessuno come lui in Italia, con due Golden Globe, due Batfa, 8 David di Donatello e 8 Nastri d’Argento, 5 Globi d’Oro, 2 Coppe Volpi e un Leone d’Oro alla carriera, 3 candidature all’Oscar). Per l’incontro con Federico Fellini, di cui è diventato l’attore feticcio e di fatto l’alter ego prima attraverso il personaggio del giornalista Marcello Rubini ne La dolce vita (1960), poi del regista Guido Anselmi in 8 e ½ (1963); e ancora di Marcello Snàporaz ne La città delle donne (1980), dell’attempato ballerino di tit tap Pippo Botticella nel toccante Ginger e Fred (1985), e infine in Intervista (1987). E per quello con Vittorio De Sica, che aumenterà ancor più la sua popolarità e gli permetterà di arricchire la sua già straordinaria galleria di ritratti. Per le storie d’amore nate sul set: da quella giovanile con Silvano Mangano a quella con Flora Carabella, conosciuta al Teatro Eliseo di Roma dove erano entrambi impegnati per la trasposizione teatrale di Un tram che si chiama desiderio, sposata nel 1950, la separazione vent’anni dopo ma senza mai divorziare; a quella passionale,  travolgente e sofferta con Faye Dunaway, conosciuta girando Amanti diretto da Vittorio De Sica; da quella con Catherine Denevue, scoppiata girando inFrancia Tempo d’amore di Nadine Trintignant, una figlia (Chiara) e cinque anni insieme, a quella con la regista e sceneggiatrice Anna Maria Tatò, iniziata  nel 1976 e durata poi per il resto della vita.

Divo e latin lover, due etichette che ha sempre detestato. Perché schivo, timido, riservato, semplice e non costruito. E lo stereotipo dell’italiano seduttore incallito e superficiale era lontanissimo dalla sua natura (nonostante bellezza, stile e fascino universalmente riconosciuti), al punto da scegliere personaggi come l’impotente ne Il bell’Antonio di Mauro Bolognini, girato subito dopo la consacrazione arrivata da La dolce vita, il goffo tradito in Divorzio all’italiana di Pietro Germi, il gravido nella commedia Niente di grave, suo marito è incinto diretta da Jacques Demy, il seminarista impacciato in Ieri, oggi e domani (con la scena dello spogliarello sulle note di ‘Abat jour’ di Henry Wright di Sophia Loren –  sua grande amica e partner preferita sul grande schermo, con la quale avrebbe girato ben 14 film e formato la coppia più celebre e iconica di sempre del cinema italiano – replicata trent’anni dopo in Pret à porter di Robert Altman) proprio per cercare di allontanarsene.  

Un talento innato, forgiato non da accademie e scuole di recitazione, ma da Luchino Visconti, che lo fece entrare in pianta stabile dal 1948 (Mastroianni aveva 24 anni) nella sua compagnia teatrale – la più importante all’epoca, con attori come Vittorio Gassman, Paolo Stoppa, Rina Morelli – assegnandogli fino al 1956 ruoli sempre più importanti in classici impegnativi (con il regista avrebbe poi lavorato anche per il cinema). Un talento che gli permetterà di esprimere una versatilità fuori dal comune mantenendo sempre lo stesso entusiasmo e stupore nell’approccio al «lavoro più bello del mondo, perché non si cresce mai, si viene accuditi, truccati, guidati, si può fare eternamente i bambinoni, interpretare i proprio sogni». Un gioco (del resto, recitare in francese si traduce con jouer e in inglese con to play), «recitare è quasi meglio che fare l’amore perché è inebriante assumere sembianze, atteggiamenti e psicologie di qualcun altro. E’ quello che fanno i bambini. E’ il gioco più antico, il primo che inventiamo quando facciamo finta di essere tu il poliziotto, io il gangster. Io mi nascondo lì, tu fai così. E uno ci crede». Il rapporto con la realtà che a volte può diventare complesso: «facendo il mestiere dell’attore si imbocca senza rendersene conto una fuga continua, spesso per vigliaccheria, perché non essendo maturi non si ha voglia di affrontare la realtà. E’ più facile vivere storie che appartengono ad altri, raccontare delle favole. Così però si sfugge a un dovere che uno avrebbe verso sé stesso, verso gli altri, verso la vita». Entrare e uscire da personaggi sempre nuovi, e intanto vivere. «Alle volte uno si porta dietro dei personaggi perché, da mascalzone, da vigliacco, gli fa comodo. In una certa situazione uno pensa: adesso faccio quel personaggio stravagante, mi presento con questa personalità curiosa. Magari funziona. A chi pensa di essere un po’ grigio nella vita può fare comodo avere un colore in più, diventa più interessante: ma se qualche volta l’ho fatto, l’ho fatto scegliendo, non perché mi trascinavo dietro questo fantasma dal quale non riuscivo a liberarmi». Giocare recitando e recitando giocare, perché «il rapporto tra l’attore e il personaggio è un curioso transfert, una specie di innamoramento momentaneo». E la possibilità, su un set magico, di godere di una condizione di totale privilegio: «Durante la lavorazione de ‘La dolce vita’, vissi in totale libertà e in totale accordo con me stesso, con i miei difetti, i miei vizi, le mie lacune. Non ebbi più paura di mostrarmi quale ero».

 I suoi limiti, le sue contraddizioni, le sue esitazioni, le sue incertezze di uomo che diventano materia da riplasmare e qualità espressive spiazzanti, piuttosto che il contrario: impossibile non esserne affascinati e conquistati, nella sua solo apparente semplicità. Così come dalla sua naturale eleganza (intesa come stile, portamento, personalità ma anche in senso stretto, come sartoria: gli abiti scuro a due bottoni indossato con camicia bianca e cravatta sottile nera, e quello bianco con camicia nera ne La dolce vita sono diventi degli evergreen) d’altri tempi, ma sempre e costantemente contemporanea. Le sofferenze inferte e quelle provate, nel suo turbolento rapporto con l’altro sesso: «La verità è sempre la stessa, io non sono mai stato capace di un gesto definitivo, non sono mai stato un eroe della volontà. Rimando, tergiverso, rifiuto di scegliere, sempre per la paura di ferire, di far male», la sua auto-analisi, il suo bilancio sentimentale prima dell’incontro (nel 1976, sul set di Todo modo)con Anna Maria Tatò, lui 52nne e lei 25 anni in meno, la relazione della maturità che l’avrebbe accompagnato fino alla fine, vissuta prevalentemente a Parigi con la discrezione come cifra distintiva, in linea con la loro vera indole, finalmente lontani dal palcoscenico della mondanità. Dopo una vita così immersa nel lavoro (e non per fama e ricchezza, che pure sono arrivate), ma perché «è come se avessi sempre vissuto delle parentesi, aspettando che poi, dopo, ci sarebbe stata la vita vera; che forse (ma senza esagerare) non c’è mai stata». Ma, tra un film e l’altro, tra un gioco e l’altro, i suoi amori, i suoi affetti, le sue figlie, le sue amicizie lo hanno pienamente coinvolto, il reale ha prevalso sul virtuale. «Da giovani, quando si monta a cavallo per compiere questa cavalcata, si pensa che sarà un viaggio che non avrà mai fine, lunghissimo! Poi, raggiunta una certa età, ci si accorge che questo prossimo villaggio non era molto lontano; che veramente è stata una cavalcata breve, brevissima. La vita. Sì, ci si accorge a una certa età che è passata così… E il villaggio è lì, vicino», racconta nel finale del meraviglioso documentario Io ricordo, sì, io mi ricordo (I remember il titolo per il mercato internazionale) girato dalla sua compagna in un arco temporale di 15 giorni, tra il 16 settembre e il 2 ottobre del 1996, durante le pause del suo ultimo film girato in Portogallo, Viaggio all’inizio del mondo di Manuel de Oliveira. Già gravemente malato e consapevole di esserlo (tumore al pancreas), ma mai patetico e sempre e solo sé stesso, ironico e malinconico: non poteva esserci un congedo più bello su grande schermo, e più commovente in teatro come l’anziano padre che va incontro alla morte interpretato nel suo ultimo lavoro in assoluto, Le ultime lune (testo di Furio Bordon, regia Giulio Bosetti), in cui smentisce sé stesso. Perché stavolta il distacco dal personaggio da parte dell’interprete stavolta è davvero problematico, e la standing ovation lunga una intera, incredibile vita va riservata all’attore e all’uomo.

Ti ricordiamo, sì, ti ricordiamo, Marcello Mastroianni. E non smetteremo mai di farlo.

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