Antonio Fortarezza e l’installazione “Il corpo senziente”. Tra relazione e cosificazione. «Spezzetto i corpi per ridare loro senso»

by Antonella Soccio

“Siamo frutto delle persone incontrate e delle esperienze che ci hanno plasmato”

Arcangelo Maira, missionario

Dopo aver tanto indagato i luoghi della salute mentale, la vita dei migranti nei ghetti e le filiere agroalimentari a loro collegate e le parole e le testimonianze dell’antimafia in terra mafiosa, l’artista Antonio Fortarezza ha avviato una riflessione sul corpo e sui corpi in un tempo di digitalizzazione e di rimozione delle fragilità fisiche e mentali a favore della pura performance e dell’eterna giovinezza estetizzante.

Si chiama “Il corpo senziente” la sua installazione audiovisiva in quattro capitoli, ancora visitabile in Fondazione Monti Uniti in Via Arpi a Foggia.

Fortarezza, che sin da studente al’Accademia di Belle Arti ha avuto una particolare attenzione per i luoghi della detenzione sanitaria e che nel corso della sua carriera ha fotografato tante strutture manicomiali in disuso, parte dalla definizione del filosofo Maurice Merlau-Ponty, per cui noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo. C’è il Körper, il corpo meccanico cioè l’insieme degli organi che definiscono e fanno funzionare il corpo fisiologico, il corpo della scienza. E c’è il Leib, il corpo vissuto, cioè l’insieme della dimensione psicologica, emotiva, percettiva e sensoriale, il corpo dell’esperienza.

Il fotografo e videomaker si affida alla teorizzazione dello psichiatra Eugenio Borgna.

“Non ci sono solo le fragilità

che si rivelano nella malattia fisica e psichica, nelle

condizioni di indigenza e di isolamento, di abbandono

e di emarginazione, ci sono

anche le fragilità che si

nascondono nelle sensibilità

ferite dalla timidezza e dallo

smarrimento, dal silenzio

e dalla sventura”.

Nelle quattro sezioni Fortarezza mette in scena il Corpo Proprio, il Corpo Migrante, la Coercizione e la Cosificazione. Come scrive il critico e curatore Gianfranco Piemontese, nel suo lavoro ci sono moltissime citazioni. Si intravedono Jean Fautrier, Dubuffet fondatore dell’Art Brut, l’Espressionismo di Francis Bacon e di Lucian Freud, la fotografia di Francesca Woodman, i suoi video frazionati e moltiplicati evocano le performance della Body Art di Marina Abramovic così come dell’Arte Cinetica o anche di un Futurismo rovesciato.

Se nel primo capitolo incentrato in parte sulla malattia il corpo viene vivisezionato e parcellizzato nella sua nudità e vulnerabilità, nel capitolo dedicato alla reclusione nell’ospedale giudiziario di Aversa il corpo nudo di un disagiato mentale, immaginato nella Seconda Guerra Mondiale, quando l’istituto fu abbandonato, e interpretato dallo stesso Fortarezza, si staglia nello spazio nella sua cinetica ripetuta come le gambe e le zampe del Futurismo, solo che qui il tempo non coincide con la velocità, il progresso e il futuro di Boccioni, Balla e gli altri, ma con un kairos interrotto ed interiore, che si frantuma in mille pezzi e si cristallizza nella memoria e nell’inconscio in frammenti di luogo, creando una molteplicità di immagini di sé a cui aggrapparsi.

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Nel quarto capitolo cita Francis Bacon, l’artista della carne, defigurando una operazione chirurgica in cui il corpo non è più senziente, ma semplice cosa inanimata su un tavolo da lavoro. Nel realismo trasfigurato di una macelleria, così come in una sala operatoria, l’umano si trasforma in oggetto, in macchina esecutrice o in sofisticato meccanismo ingegneristico che instilla vita.

«Spezzetto i corpi, per ridare loro senso- spiega Fortarezza a bonculture- Il movimento asimmetrico delicatissimo non dà più per scontato l’orecchio e il suo suono, è come un riproporre ciò che è scontato e non più percepibile consapevolmente nella sua funzione. Espongo la pelle, perché la nostra superficie corporea è un recettore e un comunicatore ed è uno strumento di relazione con gli altri. Che tu sia sano o malato, il corpo si esprime e nel bene e nel male ha continuamente una relazione con gli altri e con lo spazio. Lo spazio architettonico condiziona e influenza e al contempo stigmatizza. Il ghetto stigmatizza in un altro senso, non siamo solo noi ad emarginarli, loro stessi i migranti si sentono diversi. Nel momento in cui vivi da migrante, per cercare di realizzare un progetto di vita in un luogo diverso dal proprio, entrando in quelle dinamiche, in quegli spazi territoriali, sei condizionato».

Il rifiuto di un permesso di soggiorno, il rogo del ghetto e il racconto dell’infibulazione sono il tema narrante del terzo capitolo sul corpo migrante, il corpo vissuto di tre giovani. «Se non entri in relazione ma razionalizzi e non è una esperienza che non ti tocca, se senti le loro storie ed entrare in relazione con loro in uno stesso spazio fisico è una esperienza che ti rimane attaccata, diventa parte di te».

Antonio Fortarezza

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