Arrevutamm ‘o patriarcato con Cassandra parla, Emanuela Auricchio dà voce alle donne. «Eroine e street art dentro la società misogina»

by Michela Conoscitore

Napoli è una città parlante, la sua storia millenaria immancabilmente trasuda da ogni blocco di tufo vulcanico con cui è costruita. Alla storia antica, tuttavia, si aggiunge anche quella contemporanea e a raccontarla, soprattutto sui muri del centro storico, sono prevalentemente gli street artist. Nel proliferare allegro di queste opere di strada, da settembre, si è aggiunta una nuova voce che è collegata al progetto della pittrice partenopea Emanuela Auricchio.

Il progetto si chiama Cassandra parla, e viene facile riandare con la memoria alla profetessa troiana, sorella di Ettore e Paride, che nei suoi vaticini declamava verità scomode e annunciava tristi avvenimenti. Il progetto di Emanuela Auricchio condivide con il personaggio mitologico la necessità di dire la verità, di far conoscere anche con sofferenza l’allarmante condizione femminile che accomuna le donne di qualsiasi latitudine e tempo. Se la profetessa Cassandra non era tenuta in considerazione proprio perché donna e quindi inferiore, le opere della pittrice partenopea grazie alla loro immediatezza visiva inevitabilmente si accaparrano l’attenzione di chiunque, tra i vicoli del centro storico di Napoli.

bonculture ha intervistato Emanuela Auricchio per farsi raccontare il progetto:

Emanuela come nasce il progetto Cassandra parla?

Amo molto Napoli, ho un rapporto di odi et amo con la città, ed è oggettivo che la viva molto. Passeggiare tra i vicoli, guardarmi intorno, trovare una frase, una poesia o un’immagine mi ha sempre affascinato tantissimo. Io nasco come pittrice, e già dallo scorso anno mi ero chiesta se avessi potuto coniugare la pittura con la street art. Accantonai il progetto per un anno, perché mi trasferii a Bologna. Quest’estate sono tornata a vivere a Napoli, avevo questo blocco artistico che mi portavo dietro da un po’, sostanzialmente non riuscivo a creare nuovi dipinti. A settembre, l’idea di utilizzare i dipinti che già avevo, aggiungerci qualcosa e affiggerli in strada. Mi sono detta: fallo! Tanti anni fa, dopo una brutta relazione, scrissi una frase che oggi fa parte del progetto Cassandra: M’he fatt ‘a piezz pe’ nun m’affruntà sana, da questa frase l’illuminazione, ovvero l’idea di associare una frase ad un dipinto. A Napoli sono tante le street artist che portano slogan femministi, però lo fanno in inglese, in italiano, insomma in un modo globalmente riconosciuto. Io ho scelto il napoletano, e così alcune frasi sono mie, altre come Arrevutamm ‘o patriarcato, è la ‘traduzione’ di smash the patriarchy, altre sono citazioni cinematografiche o musicali. Cassandra è già cambiata molte volte da allora, è un progetto in continuo divenire perché se inizialmente la frase era corredata dalla traduzione in italiano, poi ho compreso che doveva avere più risalto, e ho utilizzato quindi solo il napoletano.

Perché il nome Cassandra?

Cassandra era il nome che da bambina mi sarebbe piaciuto avere. Quindi, da allora, è diventato in un certo senso il nome del mio alter ego. Col senno di poi, mi sono resa conto che averlo adottato per questo progetto calza alla perfezione. È stato tutto casuale, a partire dalla scelta del nome fino al progetto in sé.

Come sono state accolte le tue opere sui muri di Napoli?

Da settembre, quando ho iniziato, pochi sono sopravvissuti. La maggior parte sono stati strappati. La strada ha le sue regole non scritte, e ho provato a capirle. Lo street artist non deve invadere gli spazi di altri colleghi, anche in questo campo ci sono differenze tra uomini e donne. Io ho cercato il dialogo con le altre colleghe, e ho insistito: quando li staccavano, io ne attaccavo il doppio. Piano piano, anche dopo la creazione dell’account Instagram, ho percepito che la mia iniziativa cominciava ad essere accolta positivamente e ho proseguito con passione. Sono contenta perché sto dando qualcosa a Napoli, e voce alle donne. Online mi sono arrivati messaggi molto forti, donne che si sono riviste in un dipinto o in una frase. Ma il mio è un progetto inclusivo, di matrice politico-sociale, e quindi le mie opere possono riguardare chiunque. Qualche giorno fa ho affisso un tabellone bianco in cui tutti potevano lasciare un loro pensiero. Tempo dopo, quando ho controllato era pieno. Penso che il mio lavoro, piano piano, stia ricevendo riconoscimenti dalla gente.

Il fulcro del tuo progetto è proprio quello di dare voce alle donne, violentate nell’animo e nel corpo. Volevo conoscere il perché di questa scelta…

È un leit-motiv che è presente, da sempre, nella mia produzione artistica. Dipingo prevalentemente donne, le chiamo ‘le mie eroine’. Quando ero più piccola, non penso avessi una consapevolezza politica e sociale forte, poi crescendo, informandomi e dopo determinate esperienze personali mi sono resa conto che quello delle donne era un problema sistemico: viviamo in una società misogina, patriarcale, dove per noi è più difficile affermarsi, l’ho sperimentato io stessa come pittrice rispetto ai colleghi uomini. Determinate tematiche, se le senti molto tue, è più facile trovare l’ispirazione, rispettando sempre le sfaccettature delle cose. Il dibattito sulla questione femminile, oggi, secondo molti sta diventando esagerato, e questo vale per ogni argomento che abbia una radice politico sociale, e che probabilmente da’ fastidio. In merito a questo, vorrei allargarmi e far parlare Cassandra anche delle tematiche LGBTQ+.

Lo farai in un prossimo futuro?

Sì, sono progetti che man mano sto ideando. Vorrei portare Cassandra anche fuori Napoli. Penso sarebbe bello vederla anche in altre città. Credo che una delle sue prime tappe sarà Roma.

Chi o cosa ti influenza nel processo creativo?

Sento un forte spirito di affermazione, e di autoconservazione. In quanto donna so che devo dare di più, devo dimostrare che valgo perché sono donna. Questo è un aspetto che è cresciuto con me, e penso in ognuna di noi, senza che ce ne rendiamo conto. Al di là di questo, mi motiva molto ciò che succede nel mondo, le cose che vedo. In questo momento sto preparando un grandissimo manifesto su quel che sta accadendo in Iran e Afghanistan. Forse non avrei mai il coraggio di prendere un aereo e buttarmi là in mezzo, ma quotidianamente ascolto un sacco di storie provenienti da quei paesi. Ci aggiungo il mio piccolo quotidiano, le esperienze di mia madre, delle mie amiche, quando ho realizzato il progetto Artemisia, tutte le donne che mi hanno raccontato le loro storie. Così ho compreso che questo è un problema globale. In merito, io ammetto di voler dare fastidio, anziché parlare io voglio urlare. In primis nelle relazioni, e poi anche in altri contesti, ci capita di subire, di vivere relazioni disfunzionali in cui perdiamo la personalità, la possibilità di parlare. Tante piccole cose che, poi, confluiscono nella mia arte.

A partire dalla lingua, le tue opere attingono molto all’immaginario partenopeo. Volevo chiederti secondo te Napoli, culturalmente e probabilmente non solo, è femmina?

Sì, assolutamente. Basta pensare anche solamente a Partenope, la fondatrice leggendaria della città. A Napoli, nella cultura popolare, c’è una forte commistione tra sacro e profano, e nella genuinità di alcune immagini o detti popolari c’è una sorta di rispetto primordiale verso le donne.

Da Banksy in poi, si è compreso che la street art ha una capacità maggiore di provocare, scuotere le coscienze e spingere alla riflessione. Prima mi raccontavi che con il tuo progetto vuoi dare fastidio. Perché secondo te la street art è così efficace nel veicolare messaggi sociali importanti?

È il luogo a fare la differenza. Mi è capitato di vedere mostre di street artist ospitate in musei, ed è stato un po’ strano perché nei musei diventano opere che si possono solo osservare. Invece, nel vederle per strada si crea una confidenza maggiore tra opera e spettatore, e risultano spogliate da varie sovrastrutture. Con l’opera d’arte in strada si può interagire molto più facilmente, si abbassano alcune pressioni sociali, addirittura alcune opere di street art sono anche modificare dai passanti. C’è un significato intrinseco nel luogo, la strada ti da’ già l’idea che quelle opere siano per tutti.

La street art quindi non è elitaria…

Nessuna forma d’arte lo è, secondo me. L’arte deve essere per chiunque. Comunque, la strada ti concede l’opportunità di avere subito un tuo spazio. Come pittrice ci ho messo tanto tempo ad organizzare una mia personale.

Oggi incontrerai il pubblico in un workshop organizzato all’Albergo dei Poveri. Come si svolgerà l’iniziativa?

Sono stata invitata dall’associazione culturale del quartiere, MIQ, che organizza sempre bellissimi interventi sul territorio rispetto ad emigrazione, integrazione, identità e stereotipi di genere. Si stanno pubblicando vari bandi per riqualificare Piazza Carlo III e l’Albergo dei Poveri, che è immenso ed è davvero un peccato che non venga utilizzato. Si stanno portando una serie di prove al Comune, per poi scegliere le associazioni che si occuperanno della riqualificazione della struttura. MIQ è una di queste, e parlerò non soltanto della mia arte e del progetto Cassandra ma anche della violenza di genere. L’incontro si concluderà con un laboratorio interattivo, in cui il pubblico creerà con me le opere che poi verranno attaccherò sui muri di Napoli.

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