“Arte Liberata, 1937 – 1947. Capolavori salvati dalla guerra”, alle Scuderie del Quirinale tutte le opere italiane sottratte alla razzia nazista

by Michela Conoscitore

In una sala del museo, illuminato da un fascio di luce, un piatto maiolicato di epoca rinascimentale rifulge in tutta la sua bellezza e manda un messaggio al visitatore: è scritto su uno dei festoni con cui è abbellita la scena che vi è ritratta, “Viva la speranza”. Probabilmente sarà stato questo il motto che ha motivato un gruppo di uomini e donne, tutt’oggi sconosciuto ai più, a proteggere l’inestimabile ricchezza culturale del nostro Paese in uno dei periodi più bui della storia dell’umanità.

Il percorso espositivo Arte Liberata, 1937 – 1947. Capolavori salvati dalla guerra, ospitato presso le Scuderie del Quirinale sarà visitabile fino al 10 aprile, ed è una di quelle mostre che oltre ad ampliare il bagaglio culturale, lascia nell’animo del visitatore non solo gratitudine ma anche innumerevoli esempi morali di cui il mondo è sempre più povero. Se state cercando un motivo per visitarla, allora non dovete fare altro che proseguire nella lettura dell’articolo, perché ne troverete più d’uno.

Le protagoniste e i protagonisti della narrazione in mostra alle Scuderie, perché effettivamente più delle opere d’arte la centralità va agli uomini e alle donne che ci permettono con immensa gratitudine di ammirarle oggi, erano un manipolo di topi di biblioteca, termine sgraziato e ridanciano utilizzato per beffeggiare chi ha scelto la cultura come lavoro e come stile di vita. L’azione di questo gruppo assennato si svolge agli sgoccioli della Seconda Guerra Mondiale, conflitto che si distinse per la bestialità e la cieca ottusità di chi si vedeva già padrone del mondo. Una narrazione, quella nazista, a cui questi studiosi dell’arte non credettero.

In questi giorni si sta usando spesso una frase: “Non ci hanno visto arrivare”, e calza a pennello anche per i nostri. In un’epoca in cui il principale ideale da raggiungere era quello della fisicità ariana, davvero quei topi di biblioteca sono stati sottovalutati da gerarchi ed SS. Appunto la cieca ottusità nazista giocò a loro favore, in una delle missioni più importanti per l’umanità: salvare il passato dell’uomo dall’ignominia.

Nel 1938, Hitler fu in visita di Stato in Italia; non lo avrebbe mai ammesso, ma il Führer sapeva che culturalmente la Germania col nostro Paese non poteva competere. L’Italia possedeva importanti primati e menti geniali, passate e presenti, di cui il Duce pareva non accorgersi. Poco male per Hitler che notato il disinteresse dell’alleato iniziò ad accarezzare l’idea di impadronirsi dei tanti tesori della penisola. A folgorarlo, in quei giorni, fu una impareggiabile scultura, il Discobolo Lancellotti, copia della celebre scultura greca di Mirone. Quella fisicità lo impressionò tanto da eleggere il Discobolo come eccelso esempio di razza ariana. Perso nelle sue folli elucubrazioni, il dittatore decise di volere per sé e per il popolo tedesco quante più opere italiane potesse portare in patria e raccoglierle nel Museo del Führer, a Linz, sua città natale. Il Discobolo fu la prima ’vittima’ della spoliazione illecita e violenta ai danni dell’Italia. Fu quantificato che i nazisti, in quegli anni, portarono in Germania opere per un valore di quaranta milioni di lire.

Alle Scuderie del Quirinale, ad accogliere il visitatore all’inizio del percorso espositivo c’è proprio il Discobolo, nella sua plasticità perfetta, e racconta che il ministro fascista per l’educazione Nazionale Giuseppe Bottai l’aveva posto sotto vincolo grazie alla legge che porta il suo nome. Il ministro legiferò quella che è considerata la base della giurisprudenza a salvaguardia del patrimonio artistico, la legge 1041 del 1940. E fu sempre lui a coordinare, ove possibile, le operazioni di salvataggio di opere, beni e siti culturali di interesse nazionale allo scoppio della guerra. Tornando al Discobolo, purtroppo Bottai non poté nulla perché gli si contrapposero il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, potente genero del Duce, e il principe Filippo D’Assia, marito teutonico della principessa Mafalda di Savoia, che concessero al tedesco ciò che voleva. Così il Discobolo partì per l’Austria.

A poca distanza dalla scultura del Discobolo vi è un documento impressionante in esposizione, il registro del gerarca Hermann Goëring: una lista infinita di artisti e opere italiani che entrarono a far parte della cosiddetta collezione del Führer ma non solo, perché un sublime cerbiatto proveniente da Pompei fu utilizzato da Goëring come abbellimento da giardino nella sua tenuta di caccia a pochi chilometri da Berlino, e la splendida Danae di Tiziano per molti anni fu posta sulla testiera del suo letto. Non solo strappate dal loro contesto di appartenenza, ma anche insultate da un’ignoranza infinita.

Un paese in guerra è tenuto a portare con sé il proprio presente, il proprio futuro e il proprio passato. [Proteggendo quindi il patrimonio artistico] al pari delle famiglie, delle cose e della terra.

  • Giuseppe Bottai

E così fece Bottai, coordinando una rete di funzionari del ministero e direttori di museo che dal Nord al Sud della Penisola, poco prima della guerra o durante l’infuriare dei combattimenti, protessero con la vita la nostra arte. Quei topi di biblioteca si trasformarono in eroine ed eroi di quei tempi difficili. Partigiani che agirono silenziosi e attenti, fuorviando il nemico e sottraendogli prede preziose. Uno su tutti Pasquale Rotondi che da solo riuscì a salvare ben diecimila opere: nominato da Bottai soprintendente alle Gallerie delle Marche, allo scoppio della guerra trasferì le opere custodite dal castello di Urbino, possibile obiettivo del nemico, in quello di Sassocorvaro. Fu grazie a lui che le collezioni delle Gallerie Borghese e Corsini, le tele caravaggesche di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo, i ‘capolavorissimi’ di Brera e il tesoro di San Marco sono giunti fino a noi. Le opere più piccole, invece, furono custodite in casa: la Tempesta di Giorgione fece mostra di sé nella camera nuziale di Rotondi e della moglie, solo che a differenza di Goëring con la Danae, furono riconoscenti di poter essere i custodi di un così prezioso patrimonio.

Procedendo nel percorso della mostra al visitatore sembrerà di sbarcare in un magazzino di fortuna: le opere salvate sono tutte posizionate su assi di legno, un’ambientazione quella concepita dai curatori della mostra che mira a trasmettere il senso di assoluta precarietà a cui il nostro patrimonio artistico è stato sottoposto negli anni della guerra. Le sezioni della mostra si suddividono per città, e raccontano le gesta di coloro i quali con totale abnegazione e senso del dovere riuscirono a sottrarre a bombe, espropri e distruzione l’arte del nostro Paese.

Tante le donne direttrici che con lungimiranza innata seppero anticipare le mosse naziste e mettere al riparo le collezioni dei loro musei: da Jole Bovio Marconi a Palermo che collaborò con i Monuments Men, il corpo speciale degli Alleati che protesse durante il conflitto i beni artistici delle nazioni in guerra, a Fernanda Wittgens, eroica direttrice della Pinacoteca di Brera, fino a Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale di Roma che nottetempo, con la sua Topolino, per sfuggire ai controlli trasportò le opere in salvo da Roma a Palazzo Farnese di Caprarola.

Non solo le opere, l’eredità di queste donne e di questi uomini oggi sono alla base delle politiche di salvaguardia del nostro patrimonio culturale i cui albori sono stati sanciti dall’articolo 9 della Costituzione. Il Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale è un lascito di quei partigiani dell’arte che permisero all’Italia di avere un passato per cui essere grati, perché è lì che affondano le nostre, profonde, radici culturali.

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