“Diari dell’Arte Levante”, Pietro Marino e le storie in filigrana della Belle Époque di Bari, tra gallerie e collezionisti. «La prima cosa da fare è informare di quello che si muove nel mondo»

by Anna Maria Giannone

Dal sogno della Città Levante alla febbre del sabato sera, in questa parabola fra il 1960 e il 1980 tutta la storia, le ambizioni, le conquiste e i fallimenti delle politiche culturali legate alle arti visive nel capoluogo pugliese. Il percorso è tracciato dal libro “Diari dell’Arte Levante”, scritto per Gangemi da Pietro Marino in occasione del cinquantenario della fondazione dell’Accademia di Belle Arti barese.

Per celebrare questa ricorrenza importante il direttore Giancarlo Chielli ha voluto attivare un progetto di ricostruzione del rapporto fra Accademia e contesto, con uno sguardo sulle “dinamiche sociali e culturali della città metropolitana e in particolare del sistema dell’arte contemporanea nelle sue varie sfaccettature”, come spiega nella prefazione al testo. Questa prima tappa, affidata a Pietro Marino, giornalista, critico d’arte, docente, curatore, sicuramente lo sguardo più autorevole e acuto della nostra regione sull’arte visiva, ripercorre dunque il ventennio ’60 – ’80, andando a ritroso rispetto alla data di nascita dell’Accademia, per raccontare anche il terreno fertile su cui quella nascita pose le sue fondamenta. Il risultato è una narrazione che intreccia vissuto personale e vita pubblica, in una città fotografata in un momento di crescita infinita, in cui la spinta economica e industriale si legava alla grande vitalità culturale. L’operazione è tutt’altro che nostalgica, nelle pagine fitte di ricostruzioni, personaggi, ricordi, immagini, Pietro Marino disegna un’analisi in cui tante questioni rimangono ancora oggi aperte, tentativi riusciti e falle nel percorso, tutt’altro che risolto, di costruzione di un sistema di “servizio pubblico” per l’arte visiva nel capoluogo pugliese. Presentato alla città per la prima volta lo scorso ottobre, in un Teatro Kursaal gremitissimo, il libro sta continuando il suo tour di restituzioni pubbliche sempre molto sentire e partecipi. Noi di bonculture abbiamo intervistato Pietro Marino.

Questa storia parte dai primi anni ’60: perché ha deciso di far iniziare propria da questa data il percorso tracciato dal libro?

Il libro non è una mia iniziativa ma una committenza dell’Accademia di Belle Arti di Bari nell’ambito delle celebrazioni dei 50 anni dalla sua fondazione. L’idea del direttore Giancarlo Chielli era quella di ripercorrere questi anni di Accademia, immergendoli nella vita culturale e artistica della città metropolitana. Da qui è nato un progetto in più tappe. A me è stato richiesto di trattare la prima parte di questo precorso che avrebbe dovuto partire appunto dal 1970, anno di nascita dell’Accademia barese. Ho ritenuto che questo racconto non potesse prescindere da quanto avvenuto negli anni precedenti, dalle situazioni che hanno anticipato e accompagnato quella nascita. Questo libro è una ricostruzione della vita culturale di Bari che attraversa vent’anni, dai primi anni ‘60 fino alla soglia degli anni ’80, con l’intenzione precisa di mettere a fuoco la storia del sistema dell’arte in quel periodo, raccontando quanto avvenuto nell’ambito di strutture pubbliche, gallerie private, eventi, movimenti artistici succedutisi nel territorio. Ho raccontato tutto questo avendo sempre come back ground la situazione generale della città Bari, una città in quel periodo con grande voglia di ascesa, in un momento di modernizzazione quasi sfrenata, da una parte in linea con la storia generale del paese, dall’altra con caratteristiche proprie. Bari in quel periodo si afferma come città di affari che scopre la modernità e la sposa in modi inconsueti, con l’ambizione di essere protagonista della vita del Mezzogiorno.

La narrazione segue una traccia autobiografica, il suo vissuto si intreccia inevitabilmente con le vicende pubbliche dell’arte a Bari?

Quando abbiamo iniziato a ricostruire questa storia mi sono reso conto che spesso le fonti su cui mi basavo erano miei stessi scritti: recensioni pubblicate sulla Gazzetta del Mezzogiorno, con la quale collaboravo già dal 1962, presentazioni di mostre e convegni, organizzati o a cui avevo partecipato. Gran parte degli eventi legati all’arte di questa città sono passati da me, volontariamente o involontariamente, perché ero anche segretario della mostra Maggio di Bari, impiegato dell’Ente per il Turismo, insegnante nell’Accademia di Lecce e di Bari. Era inevitabile, dunque, che questa ricostruzione prendesse un taglio autobiografico e intrecciasse le mie dirette esperienze ma anche le mie visioni, con un taglio anche più generale, politico non tralasciando le contraddizioni e le questioni rimaste irrisolte: credo di essere stato anche impietoso nel descrivere fallimenti e mancanze.

Nel libro si delineano tante questioni culturali rimaste ancora aperte: non tutto quello che si è avviato in quel periodo ha poi avuto un seguito.

Le storie in filigrana, attuali anche nel tempo che stiamo vivendo, seguono tre grandi filoni. Il primo riguarda la connessione fra cultura locale e scena internazionale, questo rapporto si è espresso a Bari in quel periodo con iniziative come il già citato Maggio barese, diventato poi negli anni ’60 Biennale d’Arte con uno sguardo che si apriva all’avanguardia della scena italiana. Da lì la città ha sentita l’esigenza di provare a costruire un sistema di servizio pubblico per l’arte, immaginando la nascita di una struttura permanente con un suo spazio autonomo e un suo progetto. Questo è stato un primo grande obiettivo che, nato in quel periodo, è rimasto irrisolto fino ai nostri giorni. Il secondo tema coincide con la costruzione, inevitabile, di un mercato dell’arte e di un collezionismo, passato attraverso l’iniziativa di Expoarte nata nel 1966: anche in questo caso Bari si è fatta protagonista di un tentativo realizzare una sua fiera, con una formula diversa rispetto alle altre nazionali, un esperimento durato parecchio ma andato lentamente fallendo. La terza questione affrontata ripercorre la nascita di un sistema – anche numericamente importante – di gallerie private. In quegli anni nascono a Bari numerose gallerie, appaiono sulla scena collezionisti di respiro internazionale, come Angelo Baldassarre o Marilena Bonomo. Confina con quest’ultimo aspetto anche l’intenzione di tratteggiare quale arte si facesse in qual periodo. Nel libro ripercorro i movimenti artistici nati in quel periodo e analizzano come furono accolti in città, anche in relazione al quadro generale dell’arte italiana e alle caratteristiche socio antropologiche del nostro paese dopo il ’68. Il mio percorso si conclude in un momento storico in cui anche questi desideri di avanguardia si andavano spegnendo mentre si imponeva un’idea di consumo dell’arte più o meno passivo.

Con cosa coincide il momento di arresto di quella che è stata sicuramente la parte più vivace della storia artistica della città? Ci sono state delle circostanze che hanno favorito questo lento declino?

L’ultimo capitolo si chiude raccontando quello che avvenne a Bari nel ‘79 e segnala un disagio, che avevo espresso già sulla Gazzetta del Mezzogiorno, dovuto alla mancanza di apertura di nuove gallerie d’arte. Nel 1970 era nata a Bari una galleria guidata da un gruppo di artisti, il Centro 6. Nel ‘71 si tenne a Bari una grande mostra organizzata dall’Ente Provinciale del Turismo sull’Informale, occasione che rivelò per la prima volta al pubblico barese la grande arte internazionale di quel momento. Angelo Baldassarre, ingegnere barese fino a quel momento sconosciuto al mondo dell’arte, nello stesso anno esponeva a Bari venti artisti americani contemporanei, in uno spazio annesso all’apertura a Bari della Banca di Rockfeller. Lo stesso Rockfeller giunse a Bari perché convinto che fosse una città in un momento di crescita, interessante anche dal punto di vista economico. Sempre in quello stesso anno Marilena Bonomo – che proveniva da esperienze negli Stati Uniti – apriva la sua Galleria in via Nicolò dell’Arca. Insomma, i primi anni ’70 furono un’esplosione senza pari in Italia, dettata dal desiderio di portare le novità dell’arte internazionale anche a un pubblico generalista, cosa che si esplicitava ancora meglio con ExpoArte, una fiera di grande richiamo popolare nella città, nata per iniziativa della Fiera del Levante. Ovviamente in ogni caso fu una storia di tentativi. Esemplare il caso del gruppo di giovani pittori di Novapuglia, uniti nel solco dell’espressionismo di sinistra, la cui vita però durò appena due anni, o del gruppo teatrale della Ghironda o, ancora prima, dell’esperienza artistica del CUT che portò a Bari intellettuali del calibro di Pasolini. Ci furono in quel periodo tutta una serie di movimenti che ricercavano il cambiamento, l’avanguardia, anche a livello di società borghese, seminando l’idea che questa modernità, perseguita nei traffici, nelle industrie, nella costruzione di un moderno sistema economico, potesse riguardare anche l’arte. Parliamo degli anni di nascita della zona industriale, del grande sostegno di Moro allo sviluppo delle piccole e medie imprese. Curiosamente la morte di Moro nel ‘78 coincide con il lento spegnersi delle iniziative artistiche baresi.

Perché ha scelto questo titolo?

Il titolo del libro è una citazione tratta dal volume “Bari città Levante”, progetto mio e di Manlio Spadaro che, nel 1969, rimarcava proprio la nostalgia per la Bari popolare che stava sparendo e descriveva la Bari moderna che stava sorgendo. Ho tenuto questo disegno come traccia della mia narrazione, infatti ho inserito come prima foto un’immagine tratta da quel libro in cui si vede la statua di Piccinni dominata dalla grande insegna di Campari. Apro quindi con questa idea, quella che Gianni Amendola definiva la Belle Epoque di Bari e concludo anticipando quello che è stato il disegno di Franco Cassano, la sua idea di Mal di Levante, di città senza memoria, parabola ancora attuale.

In questo percorso che lei traccia che ruolo ha avuto l’Accademia di Belle Arti?

Quello dell’Accademia è un percorso parallelo che nasce dalla necessità di costruire un sistema di istruzione artistica: negli anni ‘50 era nato a Bari l’Istituto d’arte, negli anni ’60 il Liceo Artistico e il percorso si completa con l’istituzione dell’Accademia. L’Accademia ha in quel momento un ruolo importantissimo, i primi insegnanti furono artisti che avevano partecipato al fermento e al rinnovamento del dopoguerra in Italia, ma anche alla costruzione della nuova cultura del design e della grafica. Io per la prima volta in un’Accademia meridionale portai corsi sulle Avanguardie, sia quelle storiche che quelle del secondo Novecento, in tempo reale.

All’indomani della prima presentazione del libro al Teatro Kursaal, in cui grandissima è stata la partecipazione, lei si è detto molto stupito. Non si aspettava tutta questa attenzione da parte della città?

Forse per la mia visione disincantata delle cose non avrei immaginato che la presentazione di un libro come questo avrebbe potuto riempire un teatro. Ero abbastanza perplesso inizialmente, e invece addirittura ci sono state persone costrette a rimanere fuori. Quello che più mi ha colpito è stato il calore della sala. Oltre a stimolare un po’ di autostima questo rafforza la mia convinzione che Bari sia una città con un grande potenziale di sensibilità e attenzione culturale, non solo a livello non elitario. Eppure, in una grande città come la nostra mancano ancora i punti di riferimento fondamentali in campo artistico. È rimasto una specie di buco: in un quadro generale in cui il teatro, la musica sono riusciti a conquistarsi esperienze importanti, l’arte visiva, intesa in senso lato, con la fotografia, il design, la grafica, continuano a non avere un’adeguata rappresentanza progettuale nella città. Tutte le proposte che le istituzioni pubbliche ormai da molti anni sostengono, partono dall’idea vuota di contenitore ma non si pongono il problema di come, con quali operatori, con quali risorse e modalità gestire un progetto in campo artistico. Per costruire un’identità dialogante con la contemporaneità, reinventare le tradizioni, in una società individualistica come la nostra è importante che ci siano punti di riferimento. Io non credo che oggi la questione sia quella di aprire una Galleria d’arte moderna o un museo ma quella di immaginare strutture che siano innanzitutto di servizio, perché la prima cosa da fare è informare, in modo puntuale e aggiornato, di quello che si muove nel mondo. Se continuiamo a offrire al pubblico elusivamente mostre di Van Gogh non possiamo dire di avere uno sguardo sul contemporaneo.

Bari non è ancora una città per l’arte contemporanea?

L’arte contemporanea oggi ha a che fare con la natura, da un lato, e all’altro estremo con la digitalizzazione. Sembrano due poli opposti ma questo emerge dalle mostre più attuali che è possibile scoprire grazie a gruppi, fondazioni, gallerie contemporanee. Noi siamo ancora legati a situazioni passate. È giusto che ci sia attenzione alla conservazione delle cose, alla valorizzazione di opere che negli anni abbiamo acquistato anche con i soldi pubblici, la memoria va coltivata ma sapendo che il mondo va in un’altra direzione che ci sono cose che si muovono nel mondo. Sarebbe il caso di ricordarlo.

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