Fotografia e risata, Michele Smargiassi rintraccia la storia dell’ilarità degli scatti col Foto Cine Club

by redazione

Perché siamo stati abituati a sorridere come riflesso incondizionato davanti ad un obiettivo? Una fotografia può far ridere? Può essere comica? Che differenza c’è tra foto ridicola e foto comica? La “grande foresta” della rete e della condivisione social ci ha resi più divertenti e più ironici?

Ha risposto a queste domande il grande fotogiornalista Michele Smargiassi in una importante lezione, offerta al Foto Cine Club di Foggia per i festeggiamenti dei 50 anni di attività in Capitanata e in Puglia.

Il fotografo ha dimostrato con un massiccio lavoro di memoria e tantissime slide, che sono il corpo della sua ricerca ormai decennale con Repubblica di Fotocrazia, che non si è sempre sorriso davanti alla macchina fotografica. C’è un anno in cui tutto inizia ed è il 1888, quando la Kodak in una pubblicità lega la fotografia al marchio della felicità familiare. È allora che il sorriso comincia ad essere percepito come la bandiera della felicità e del successo parentale. Il passaggio dal focolare domestico al potere e alla vita pubblica è breve.

“La foto, con la pubblicità, diventa il documento della felicità. Si passa subito dal privato al pubblico. Se Abramo Lincoln ha ancora un cipiglio lugubre nelle foto, nel 1992 Roosevelt usa già il sorriso come brand, fino ad arrivare al re del sorriso americano, Ronald Reagan”, ha osservato Smargiassi.

Ecco dunque che lo smile è oggi una maschera, una bandiera, una divisa, un obbligo sociale, un requisito minimo di socialità ed anche un protocollo di corte.

Ma se tutti sorridono nelle foto che senso ha la finzione del ridere e del mostrare i denti? Il sorriso appare a molti infatti ipocrita in foto perché non è la garanzia di innocenza, come ha spiegato Smargiassi mostrando scatti di marines torturatori che si immortalano sorridenti.

Da un lato le foto domestiche e private e dall’altro quelle doganali, anagrafiche, dove è assolutamente vietato sorridere. Nelle carte d’identità e in quelle loro espressioni neutre ciascuno ritrova il potenziale delinquente nascosto dentro di sé.

Dallo smile personale delle foto ricordo alla risata con la fotografia. Smargiassi ha citato varie fonti. Da Roland Barthes a Régis Debray, secondo cui la fotografia ha troppo cuore per avere spirito.

Il primo a ricorrere alla comicità nella fotografia è stato Elliott Erwitt, uno dei pochi a conoscere i meccanismi dell’ironia visuale e della retorica comica dell’immagine. L’ironia nasce soprattutto dal chiasmo. Ma se il comico non è uguale al ridicolo e il sarcasmo non è l’ironia e il travestitismo non fa una caricatura o una parodia, cosa ci fa ridere in una foto? E come si fabbrica una foto comica?

La casa delle cariatidi di
Henri Cartier-Bresson

Smargiassi ha elencato alcune tecniche. Anzitutto il contrasto, poi l’assurdo, l’artificio della collisione, della ripetizione, della sproporzione, dell’allusione. O anche l’attimo irripetibile.

“Due cose diverse tra loro che scavalcano il passaggio logico e si collegano tra loro fanno ridere. Lo vediamo in alcune foto di Henri Cartier-Bresson, per vedere il comico esso deve essere leggero. Per far ridere la fotografia deve far credere di essere ingenua, non troppo costruita”.

Andrea Micheli nel suo libro Lapsus ha raccolto tante sue immagini parossistiche, ma Smargiassi ha anche sottolineato la teoria sul riso di Henri Begson. Il riso può essere feroce, se è una anestesia del cuore, è spesso conformista e deridere non sempre significa liberarsi, se non si deridono solo i potenti, ma anche i perdenti.

È sembrato che Smargiassi tema proprio questo aspetto della foro comica oggigiorno con l’avvento della rete, che permette di decontestualizzare con una didascalia qualunque foto, fabbricando così fake news e macro anche violente, razziste.

Martin Parr e i suoi reggitori di torre

L’esempio alto di una comicità applicata alla società è il fotografo Martin Parr, di cui Smargiassi ha mostrato l’esilarante foto dei reggitori di torre di Pisa insieme alle sue immagini del popolo in spiaggia. Il ridicolo è il comico che non sa di esserlo: tutti senza difese diventiamo ridicoli.

La sua arte sta nell’estrarre delle cose e renderle paradossali. “La fotografia è ridicola perché condivide la comicità e oggi siamo all’apoteosi della condivisione con al rete e coi social. C’è un libro What the fuck! che raccoglie tutte le fotografie simpatiche della rete. L’ilarità delle immagini c’è sempre stata, ma oggi viviamo un pericolo in più. Separare la foto dal suo contesto è rischioso”.

In rete, le foto possono essere condivise subito, si possono diffondere e pubblicare, senza intermediazione- ha aggiunto- una cosa che naturalmente ha messo in crisi il fotogiornalismo, che era l’unico titolare dell’informazione visuale. Oggi però a dispetto dell’enorme quantità di informazione visuale, i fotografi professionisti possono cercare la loro strada nella foresta della rete innalzando la qualità dei loro scatti, per produrre qualcosa di diverso e dare qualche stimolo a fare di più.

Il fotogiornalista si è anche interrogato e ha interrogato la platea dell’Auditorium Santa Chiara sul senso dei tanti selfie che ognuno scatta e condivide sui social e delle cosiddette duck face (le facce con bocca a paperella). “Forse sfuggo alla foto e faccio il ridicolo per non correre il rischio di sembrare ridicolo. Il riso è una risorsa naturale, fragile, pubblica. Cerchiamo di non sprecarla”.

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