Il cannocchiale che nasconde e inventa di “Antonio Donghi – La magia del silenzio”. In mostra a Palazzo Merulana le opere del pittore del realismo magico che fu anti futurista

by Michela Conoscitore

Gabriel Garcia Marquez, padre del realismo magico letterario, disse che: “non c’è atto di libertà individuale più splendido che sedermi a inventare il mondo, davanti ad una macchina da scrivere”. Sostituite la macchina da scrivere con un pennello, colori ad olio e tele ed è sicuramente quello di cui era convinto anche il pittore romano Antonio Donghi, tra gli esponenti più importanti del realismo magico pittorico. Palazzo Merulana, a Roma, gli dedica la mostra “Antonio Donghi – La magia del silenzio”, curata da Fabio Benzi, e visitabile fino al 26 maggio. Un’occasione non solo per ricordare il pittore, ma anche per riscoprirlo.

La sua carriera è scorsa sempre senza troppi clamori, ma non senza grandi riconoscimenti. Figlio di un commerciante di tessuti, al divorzio dei genitori il futuro pittore venne mandato in collegio. Conseguita la licenza presso il Regio Istituto di Belle Arti, la Grande Guerra arrestò momentaneamente il suo percorso artistico, poiché lo costrinse a partire per il fronte francese. Al ritorno in Italia, e al termine del conflitto, Donghi decise di dedicarsi allo studio della pittura nei musei di Firenze e Venezia. L’esordio risale agli anni Venti: a Roma, nel 1923 partecipò alla Biennale, ed era già vicino alla corrente del realismo magico che, in quegli anni, era una risposta al Futurismo e alla pittura metafisica. Una visione della realtà onirica, che si ritagliava un proprio spazio per affermare che il passato non era da rigettare, e che la modernità, decantata da Marinetti & co., stava portando più caos che progresso.

Donghi si muove a cavallo tra due guerre, con i totalitarismi che gravitano sulla quotidianità di tutti. Gli anni trascorsi a studiare gli artisti che lo avevano preceduto, per lui diventarono un bagaglio culturale prezioso, che rielaborò nei suoi quadri e a cui diede nuova vita. Le opere che aprono il percorso espositivo sono Le lavandaie e La pollarola, popolane che detenevano la genuinità della Roma semplice, lontana dagli schiamazzi politici.

Le donne di Donghi, poi, si evolvono: quelle che il visitatore incontra successivamente, possiedono degli ovali botticelliani, resi moderni non solo dalla moda borghese dell’epoca ma anche dallo stile dell’artista che prova a carpirne i segreti. Da Gita in barca, tra le sue opere più importanti, a Donna alla toeletta, il visitatore si sentirà scrutato da occhi serafici, quasi sornioni. Occhi che osservano, in silenzio, da un tempo diverso, seppur non così lontano. E pare nascondano verità. Quello di Donghi è un realismo magico che promette fuga e straniamento.

Il pittore è ricordato essenzialmente come artista figurativo, ma sono significative anche le sue opere da paesaggista, che restituiscono vedute di Roma a metà tra realtà e immaginazione. A seguire, i ritratti con i protagonisti del mondo circense, da L’addestratrice di cani a I saltimbanchi fino a Il giocoliere: il contrasto tra il mondo del circo e il mondo ‘fuori’, serve a trascendere il presente. Il realismo magico di Donghi, quindi, è quasi come un cannocchiale magico, che nasconde e inventa, che ricorda e rivisita.

Si giunge al termine del percorso espositivo con le opere Il duce e la rinascimentale L’ Annunciata, un duo che pare rappresenti la scissione che un’artista come Donghi, a quei tempi, doveva vivere quotidianamente. Non è dato sapere se fosse un pegno da pagare, all’indomani della nomina come docente presso la Regia Accademia di Belle Arti, o un ritratto sinceramente sentito: quel che arriva a chi lo osserva è un poco riconoscibile ed evanescente uomo a cavallo, che chiama alla memoria i ritratti dei signori rinascimentali, ma di cui non possiede la stessa magnificenza. A distanza di anni, permane il dubbio sulla natura dell’omaggio al dittatore, poiché sembra quasi forzato, una caricatura.

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