La fisionomia dell’arte tra anfratti psicologici e civiltà antiche. Da Paglicci e i mesoamericani a Brancusi

by Filippo Mucciarone

Wim De Haan pittore olandese scampato all’olocausto (che tra il 1941 ed il 1943 pose atto alla schiavitù nella costruzione della ferrovia di Burma tra Birmania e Thailandia voluta dall’esercito nipponico in cui persero la vita più di tredicimila prigionieri di guerra del Commonwealth, Olandesi, Inglesi e Americani e quasi centomila civili reclutati per manodopera forzata e deportata dalla Malesia e dalle indie orientali), non riuscendo infatti a dimenticare (come molti coinvolti) quella tragica esperienza, con l’aiuto dell’arte e della pittura (una volta tornato in Europa e dopo laureatosi in psicologia), prova ad esorcizzarla nelle sue opere, tramite un parallelismo che spazia tra espressionismo astratto ed informale. Esplora in rapporto al bene e al male un percorso di analisi sincretico tra Freud e Calvinismo, facendone rivivere attraverso ricordi e sogni che in forme colorate disparate esplorano la contraddizione tra disperazione e speranza.

Questa testimonianza risalente quasi alla metà del secolo breve del ‘900 in piena seconda guerra mondiale, vuole significare e dipanare anche uno spartiacque legittimante e sussistente tra contemporaneo e antico. Onirico e preistorico. In affinità di eguaglianza di eventi e contesti correlanti, nella circolarità della storicità a tratti recalcitrante, tra culture tradizioni differenti e stravolgimenti epocali “diversificati”. Accomunati tra l’altro ancora, tra sciamanesimo e culti rituali propiziatori, aperture di fedi tra “complotti degli opposti”, ed un incentrato ed incrementante “nomadismo” artigianale, che traslato dall’amalgama psicoanalitico tende a farne discernere così, in ambito attuale, il proprio status codificato attraverso l’aspetto puramente intenzionale.

Relativamente, ad un animale o ad un oggetto dipinto in modo parietale di epoca del paleolitico superiore delle Grotte di Lascaux o di Paglicci, (piuttosto che in incedere) un poter accomunare un vaso di cultura moche precolombiana con una testa di corona oni in lega di rame di cultura nigeriana Ife, a qualcosa di derivazione Cucutena dell’epoca preindoeuropea. Attuando su ciò quella differenza fondamentale tra operosità specializzata ripetitiva o d’apprendistato artigianale, da una tecnica precisa e d’elaborazione in ambito artistico, che ne determineranno appunto al volgere odierno gli “stilemi” e quelle cifre estetiche definite o specifiche in grado di avvalorarne vieppiù su di un “manufatto”, l’oggettivazione artistica dell’oggetto.

Tali circostanze ed esperienze, non solo evidentemente filtrate in ambito psicologico dunque, nella “postura” dell’essere, fattosi mondo, sembrano trasalire da un tracimante e tracotante abbeverarsi, che da una ricerca spirituale e sciamanica sembri condurre ad una alchimia di base, dove la cosmologia, i segni, il sole la luna, l’oro e l’argento, apportano ad un arte che è “trasfigurazione della vita” come sovente soleva dire lo scultore Brancusi. Forte il suo interesse e la sua inspirazione per la cultura indiana, tenne anche una delle sue prime esposizioni al “falasterio” del gruppo dell’abbazia di Creteil essendosi avvicinato alla teosofia.

Un’estasi in movimento costante dunque, in cui tra paleoavanguardia e zona paleartica tramite il transito del pensiero dell’arte a noi prossimo, non è scontato incrociare Nietchze, con il suo concetto di transvalutazione dei valori. Come anche tra fauvismo cubismo o surrealismo, è altrettanto possibile poter desumerne un certo transazionalismo di sorta, tutt’al più comunque non soltanto al volgere oleografico ed iconoclasta dell’evoluzione artistica umana.

Il bacio, Brancusi

Le Teste di Muse di Brancusi, o le sue sculture astratte della serie degli “Uccelli”, così come ugualmente la sua opera “L’inizio del mondo” del 1920 possono del resto ben dialogare in questa similitudine d’intenti e di “genesi” (prima ancora nell’antitesi di un suo pre-cubismo scultoreo dell’opera “il bacio” del 1908 ed “epigono” ultimo forse di un “Mezcala” occidentale), con una testa cubista di A.Giacometti del 1935. La dove, quest’ultimo, subendo l’influsso dell’ambiente parigino del periodo, di Picasso e del surrealismo, decide però di divincolarsi e seguire la sua corrente artistica vitale, attuando poi difatti quella sua possibile simbologia artistica di “moto a luogo” (sino a noi) del “neantropo” dell’arte con la sua celeberrima serie scultorea  dell’“Uomo che cammina”.

Cosa, questo caos e portato di ambivalenze puramente ambientale, “mesozoico” o “mesoamericano”, possa poi in definitiva suggerirci circa una intertestualità organica della materia e dell’uso dell’arte in questione sullo sviluppo o lo stravolgimento umano in seno al suo miglioramento verso l’approdo della civiltà collaborativa e civilizzata su una recidiva ed indicativa effervescenza del primato del primitivismo sul contemporaneo (?) Del “moderno” sul modernismo (?) Dato questo che, comunque (essendo per larga parte) relazionato ad una dimensione in cui l’aspetto “intransitivo” rispetto al “transitivo” al cospetto non soltanto della fase storica incidente, vedrebbe plasmarsi al di la (non solamente) dell’aspetto agnostico (?).

Gruzinsky in (alcuni capitoli de) “La guerra delle immagini” (1989), prende in rassegna la querelle risalente allo scontro che le immagini hanno caratterizzato nell’VIII secolo per l’impero Bizantino [… ] Nel XVI secolo la riforma protestante e la controriforma cattolica operavano scelte opposte e decisive per l’epoca moderna in cui si assisteva, in particolare nell’America latina, all’ “apoteosi barocca dell’immagine cattolica”.

Paedogeron, Durer

Al di la dunque della questione dell’immagine come strumento (“sacro e profano”) di localizzazione, poi di acculturamento ed infine di dominio, come sostiene Gruzinsky (in ambito “preispanico”) : cosa precluderebbe oltremodo di poter annettere attraverso la sfera d’una “pasigrafia del contemporaneo” contestualmente sempre una prospettiva ricalcitrante ed “affibbiante”, un “bilderatlas” di immagini come lo fu l’ “Avorio Barberini” di derivazione paleocristiana, con l’oreficeria profana dei Longobardi frapposta, ancora ad esempio, alla decorazione naif di un capitello della Basilica di Santa Sofia rispetto ad un effige del “Cristo davanti a Pilato” di scuola cassinese del XI secolo in epoca “Sacro romano Impero” (?).

Oppure, una maschera di cultura Teotihuacàn del Messico ed una testina atzeca sempre mesoamericana (magari con provenienza collezione Medicea di Firenze), con l’intramezzo creativo compositivo astratto e curioso delle forme di Mirò degli anni venti, ove tal ultima produzione vide il carattere esplicitamente letterario di queste opere testimoniato dalla tendenza a risolvere le proprie figure rappresentate in suggestive metafore…Sino ad arrivare ad una sua opera poliforme e stilizzata del 1946 come “La speranza” (?).

La speranza, Mirò

Una corrente di pensiero di Franz Brentano sulla “psicologia senz’anima” che giungerà poi ad una più generale ed irrisolta questione in Psicologia tra Freud e Jung (che prenderà poi le distanze dalla psicoanalisi freudiana intesa a suo avviso solo come asettica procedura estenuante nel tentativo di scandagliare l’identità personale come solo fine di approdo e diagnosi, e non già per inserirvi elementi di interazione propriamente umani come la componente libido, per aiutarla a migliorarla), come dato ed effetto conseguenziale il nostro tema tramanda più proficuamente al di la del guado. Seguendo, appunto, la “discriminante” a riguardo del filosofo e psicologo statunitense Daniel Dennett, il quale in calce ed in disaccordo proprio con Brentano poi, soffermerà la problematica della sua ricerca articolandola nei campi relativi alla biologia evolutiva e alle scienze cognitive.

Ed è specificatamente in tal modo (ed a modesto avviso), che si potrà allor più meglio accordarsi con quanto il teorico dell’arte Marcel Janco diceva a proposito di Paul Klee nel 1917 ad una sua personale a Zurigo : “Nel suo meraviglioso lavoro noi abbiamo visto riflessi tutti i nostri sforzi di comprendere la spiritualità dell’uomo primitivo, di immergerci nell’inconscio e nell’istintivo potere della creazione, di scoprire le pure e dirette fonti della creatività del bambino”.

Maschera con bambino, Paul Klee

Del resto prima di Giotto, per un millennio circa l’arte perse la sua valenza alchemico “allusiva” nonostante la predominante connotazione religiosa e metafisica della cultura del tempo, portando in se in analogia ancora una volta tra “arte antica ed occidentale”, un aspetto simbolico e non propriamente allusivo di rimando (vedi ad esempio quello di un “campionario di fisionomia posturale e scultoreo” che da un busto femminile di Cultura Valdivia dell’Equador rappresentante allusivamente la fertilità dei campi possa rimandare ad una maschera africana del XVI secolo d.c., per poi magari in continuità di fase alludere all’Altare del Duca Racthis in visitazione – 737-44 d.c. – presente al museo cristiano del duomo di Civitate del Friuli, e di epoca paleocristiana).

Vedi anche il Paedogeron (il fanciullo vecchio attribuito ad A. Durer), che nella cultura esoterica ed alchemica dell’epoca di riferimento rappresentava in una figura sapienzale, l’unione dei contrari (come lo sarà a suo modo oltre tre secoli e mezzo dopo circa la Gioconda con baffi e barba di M.Duchamp). Così da poter relazionare in rapporto “dominante” con “La maschera con bandierina” (del 1925) o con la “Maschera di terrore” (1932) sempre di P.Klee, appunto, tale fattore “surrettizio e concomitante”.    

“Per le strade e per i luoghi dove crescono le anime e confondono i pensieri, oggi come ieri, le credenze popolari, forti di anni, di guarigioni e di passioni, dall’africa all’oriente per poi arrivare al meridione, muovono le sette. Riti magici e malocchio, e lo “scontro” tra culture, scettici e credenti, misticismo e ragione. E non è l’ultima questione…” (si udivano in cori le voci da un intramezzo vocal musicale nel brano “A Mascie’je”, La magia, del gruppo indigeno foggiano Pseudofonia presente in albòre di Ep autoprodotto 1991).

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