La musa di Guernica: Dora Maar, la fotografa surrealista, piena di fascino e violenza, che con Picasso diventò la donna che piange

by Michela Conoscitore

In psicoanalisi, l’associazione libera è usata dal terapeuta per analizzare più a fondo il disagio del paziente. Probabilmente lo psicoanalista Jacques Lacan utilizzò questa tecnica quando prese in cura una sua assistita illustre, la fotografa surrealista Dora Maar.

Approdò come una naufraga, nello studio di Lacan, dopo esser stata risucchiata da un vortice. Chissà se il dottore, tra le varie parole proposte, le pronunciò questa: Amore. La mente frustrata di Dora sarà inorridita, può aver avuto un blocco e non aver suggerito alcun collegamento, oppure la donna potrebbe aver pronunciato in risposta: Dannazione. L’amore di Dora non è stato felice, d’altronde è una delle opzioni che non si possono escludere quando ci si tuffa dentro un altro essere umano. L’opzione di Dora, però, oltre che infelice è stata anche distruttiva. Inoltre possedeva un nome altisonante: Pablo Picasso.

Henriette Theodora Markovitch nacque a Parigi nel 1907, dall’unione tra l’architetto croato Joseph Markovitch e Julie Voisin. La sua fu un’infanzia cosmopolita, dopo la partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 il padre divenne sempre più richiesto in tutto il mondo, tanto che decise di dividersi tra l’Argentina e la Francia. Dora crebbe in questo ambiente molto vivido e dinamico, nel quale respirò arte e cominciò a pensarsi come creativa. Nel 1926, la famiglia Markovitch tornò definitivamente a Parigi e la diciannovenne Dora si iscrisse alla Scuola di Arti Decorative e all’Académie Lhote, aveva deciso di diventare pittrice. Tuttavia, questo progetto di vita durò poco perché in seguito all’incontro con Henri Cartier-Bresson e Brassaï scoprì la fotografia e se ne innamorò irrimediabilmente. Convertì l’iscrizione all’École de Photographie de la Ville de Paris, e non si dedicò ad altro.

In quegli anni, oltre alla sperimentazione, Dora viaggiò molto, documentando persino le bellezze di Capoverde. La crisi economica del 1929 prostrò tutte le nazioni, e Dora con il suo sguardo fotografico, acuto ed empatico, raccontò la povertà che dilagò in tutta Parigi. Principalmente, l’artista scelse il quartiere Zone come set fotografico dove, alla periferia della città uomini e donne provavano a sopravvivere in baracche, nel fango, lottando contro la fame e gli stenti. In questo modo, provò ad essere vicina agli ultimi, ai diseredati che vivevano ai margini della società, ritraendo la loro realtà. Proprio in questo periodo, accanto alla fotografia, coltivò l’impegno politico avvicinandosi sempre più al partito comunista e firmando numerosi manifesti antifascisti. Ormai era una fotografa affermata, era riuscita ad aprire anche un suo studio con il collega Pierre Kéfer, ed era entrata nella cerchia dei Surrealisti che riconobbero come loro la sua arte, onirica e originale. Se un contemporaneo scorresse, in una galleria virtuale, le foto di Dora Maar senza dubbio non darebbe a quelle foto più di ottant’anni, perché l’energia innovativa dei suoi scatti è ancora intatta e molte di esse risultano, tutt’oggi, antesignane di una percezione di là da venire.

Oltre alla sua attività, divenne musa del fotografo Man Ray, e poi viaggiava tanto e sempre da sola, ideando narrazioni fotografiche che, in seguito, ispirarono molti suoi successori. Una su tutte, quello che dedicò alla città di Barcellona. Quello fu un periodo molto appagante per Dora, apprezzata e ammirata dalle cerchie artistiche parigine, aveva raggiunto lo status invidiabile di donna libera e autonoma. Poi, nella sua vita, arrivò Pablo Picasso.

Lo incontrò, per la prima volta, sul set di un film di Jean Renoir. Dora, tra i suoi mille impegni, non disdegnò nemmeno le collaborazioni nel cinema. Non si sa molto di quest’incontro, allora Dora aveva ventotto anni e Picasso ben cinquantaquattro. In quello successivo, la fotografa spiazzò il pittore perché al suo arrivo, accompagnato da Paul Eluard, sulla terrazza del caffè Les Deux-Magots la trovarono seduta ad uno dei tavolini, intenta ad un ‘gioco’ pericoloso: con un coltello colpiva ripetutamente gli spazi liberi tra le dita della mano. I guanti bianchi che indossava, ben presto, si macchiarono col sangue delle ferite che si stava infliggendo. Picasso rimase irretito da quell’amalgama di fascino e violenza, tanto da chiedere a Dora di regalarle i suoi guanti insanguinati. Li avrebbe conservati, fino alla sua morte avvenuta nel 1973, in una vetrinetta. La situazione sentimentale di Picasso, all’epoca era alquanto instabile e caotica: ancora sposato con la ballerina russa Ol’ga Chochlova che gli aveva dato il primogenito Paulo, la moglie scoprì poco dopo la nascita del figlio che il pittore la tradiva con la diciassettenne Marie-Thérèse Walter, incinta di quella che sarebbe stata la secondogenita Maya. Olga gli aveva chiesto il divorzio, ma il pittore si rifiutò di dividere il suo, già allora, inestimabile patrimonio così Chochlova rimase formalmente sposata fino alla sua morte, avvenuta nel 1955, con Picasso.

L’arrivo di una nuova donna nella sua vita, per il pittore, equivaleva alla conquista di energia fresca e stimoli creativi. Dal canto suo, Dora era totalmente asservita a lui, dimenticando se stessa e quel che aveva, faticosamente, costruito negli anni. Ripeteva a tutti che: “Dopo Picasso c’è solo Dio”.

L’artista di Malaga era un narcisista patologico, adoperò con Dora la stessa strategia che aveva attuato con le conquiste precedenti: stordimento, svilimento (anche sessuale), annientamento. Spinse Dora a lasciare la fotografia, le disse che piuttosto era molto brava come pittrice e non doveva trascurare la sua vera arte. In realtà, la attirò con l’inganno nel campo in cui lui primeggiava per mortificarla e azzerarle l’identità. Picasso le ripeteva spesso: “Sei troppo alta, troppo bella, troppo libera”, i narcisisti distruggono quella che non è la loro perfezione, quando la scorgono negli altri dapprima la invidiano e poi la disintegrano. Difficile sottrarsi a quella forza centrifuga che risucchiò Dora in una spirale di disagio, depressione e dipendenza emotiva. Lei prostrata e sofferente, lui che proseguiva a collezionare donne, incurante del dolore che provocava, perché gli era necessario.

Dora, per me, è sempre stata una donna che piange. Sempre. È importante, perché le donne sono macchine per soffrire.

Pablo Picasso

Dora era libera, giovane, bella e di successo. La relazione con Picasso la condannò all’ignominia, ad una damnatio memoriae nel mondo dell’arte che la relegò in un ruolo nocivo per la propria sanità mentale, quello di vittima. Da allora divenne la Donna che Piange, dal quadro del pittore conservato alla Tate Modern di Londra, che la ritrae disperata probabilmente in una delle sue numerose crisi di pianto. Decenni dopo la loro relazione, si scoprì che la vera ispiratrice di uno dei dipinti più celebri di Picasso, Guernica, fu proprio Dora. Impegnata politicamente, raccontò al pittore quel che stava accadendo nel mondo, concepirono il dipinto e Dora ritrasse il compagno intento nella creazione dell’opera con un reportage fotografico che è rimasto nella storia.

Io non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone.

Dora Maar

Quando il sessantaduenne conobbe la giovane pittrice francese Françoise Gilot, abbandonò Dora nella disperazione più cupa dopo nove anni di vita insieme. Se qualcuno gli raccontava che l’ex fotografa stava male e versava in condizioni drammatiche, Picasso rispondeva: “La vita è fatta così, elimina automaticamente i disadatti”. Fortunatamente, Dora sopravvisse. Non si riprese mai del tutto dalle vessazioni, le percosse, l’umiliazione e l’elettroshock però non cedette mai alla tentazione di sacrificare totalmente la sua vita a chi gliel’aveva distrutta. Anni dopo, parlò di lui: “Solo io so quello che lui è, uno strumento di morte. Non è un uomo, è una malattia”.

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