L’arte di Anish Kapoor a Palazzo Strozzi, il «colore come una qualità immersiva» per creare una poetica dell’essere

by Valeria Nanni

Solo le persone coraggiose viaggiano nella propria interiorità, quelle che non si lasciano intimorire dalla scoperta di parti inaspettate di se stessi. Una strada è la psicanalisi, ma per l’artista Anish Kapoor una via può diventare il colore. La sua arte irrompe a Palazzo Strozzi a Firenze nel progetto espositivo Untrue Unreal inaugurato ad Ottobre, visitabile fino al 4 febbraio 2024. Arte minimalista e concettuale si fondono. La sua mano fa diventare il pigmento opere d’arte, il suo percorso progettuale trasforma l’architettura in struttura che racchiude il vuoto. Tutte le certezze rinascimentali come armonia, misura e organicità, manifestate dal cinquecentesco Palazzo Strozzi, sono capovolte con arte.

Parola guida nel percorso di Anish Kapoor è “profondità”. Viene perciò tirata in ballo la prospettiva con tutte le sue varianti, e Anish sperimenta per superarla. Viene indagato l’inconscio, come se il visitatore compisse un percorso nella profondità di se stesso e lì trovasse un linguaggio cifrato fatto di figure geometriche e colori. Le tinte sulle quali Kapoor gioca, indaga, riflette, sono poche ed essenziali. Usa i colori primari come rosso, blu, e giallo, e i due colori antitetici per eccellenza bianco e nero. “Penso al colore come a una qualità immersiva” dice Kapoor.

Al piano nobile del palazzo ci si imbatte nel primo oggetto proposto realizzato in cera rossa. Qui la forma e la materia si manifestano con il colore dell’interiorità, la materia interiore. Tradizionalmente il rosso è un colore ambivalente, del sangue della ferita, ma anche della fertilità. La cera ha la consistenza simile alla materia organica. Gli elementi relativi al rosso sono sangue e fuoco. Il rosso assume quindi una valenza rituale. Il sangue si offre alla divinità, è il simbolo del sacrificio. Nelle sue opere Kapoor mantiene ambiguità e dualità, sottolineate da carne e spirito. Qui la forma si autocrea ed oltrepassa lo spazio di due sale, per poi emergere come colore, dunque presente. L’opera è formata da 40 tonnellate di cera rossa che si muovono come un trenino su un binario di 20 metri.

“Io preferisco rifarmi alla poetica degli oggetti e alla poetica dell’essere – dice Kapoor piuttosto che dare significati alle sue opere – cito Paul Valery che ha detto che una brutta poesia è quella che svanisce nel significato. Tutta la grande arte si trova proprio nello spazio intermedio, a metà strada tra significato e non significato, fra l’essere e cosa voglia dire l’essere”. Dunque l’interpretazione è lasciata allo spettatore. Sin dall’inizio, il titolo della mostra Untrue Unreal, mette a nudo la contrapposizione tra cosa è e cosa non è, tra cosa ci sembra vero e cosa è solo illusione del vero. Aperto è l’interrogativo su cosa sia l’essere. “Ciò che è imprescindibile e illusorio fa parte dell’essenza di ciò che siamo. Infondo in questa vita ci siamo per un tempo molto breve, non sappiamo cosa ci sia prima dell’inizio, e cosa dopo, e da qui nasce la disperazione della nostra condizione umana”.

Altra tonalità fondamentale è il blu, il colore del trascendente, usato sin dal medioevo nelle pale d’altare nel manto della Madonna e nella veste di Gesù. Kapoor usa il blu di Prussia, pigmento che richiama il costoso lapislazzuli delle icone, e lo usa come rivestimento di pezzi di ardesia per dare l’impressione di aver staccato pezzi di cielo. Il blu è il superamento della materialità, un colore ancora più profondo del nero. Il lavoro di kapoor è alchemico, parte con il suo lavoro dal materiale per trasformarlo in altro da sé. L’illusoria profondità data dal blu, l’arte della trasformazione, ha fatto subire alla sostanza un mutamento alchemico creando un mix di psiche e materia, ovvero “quella meraviglia che noi umani possiamo fare e che abbiamo dimostrato di poter fare”.

Sull’uso del bianco e del nero c’è un’altra parola guida: vertigine, da connettere con profondità. Possiamo citare diverse personalità intellettuali che hanno indagato la caduta, da Galileo Galilei a Freud. E ancora Louis Carrol che con Alice del Palese delle Meraviglie propose un mondo i cui perdersi. Kapoor collega il senso della caduta alla forma concava, basandosi sulla dicotomia tra reale e irreale esistente in tutti gli oggetti. Se non possiamo prescindere dalla materialità degli oggetti, possiamo superarla facendo sparire i bordi, i contorni. Qui si infrange la prospettiva, qui si supera la terza dimensione. Qui si arriva alla messa in discussione dell’idea dell’oggetto. “Dobbiamo confrontarci con la perdita dell’oggetto per analizzare la complessa relazione con la realtà”. E la dicotomia bianco/nero mette visivamente in discussione l’idea dell’oggetto creato. Le forme si dissolvono al passaggio dello sguardo.

Nero è oscurità, annullamento di ogni colore, forma, essere. Kapoor lo utilizza per la sua capacità di far sparire gli oggetti. Di creare un effetto di vuoto, come fessura dell’io. Per questo è andato alla ricerca sul mercato del colore nero più nero, trovandolo più di 8 anni fa nel Vantablack, realmente il materiale più nero dell’universo, più nero di un buco nero. “Se esso si usa sulla piega essa non si vede più, scompare. Questa realtà diventa funzionale. Mi consente di portare l’oggetto al di là dell’essere, mi consente di spostarmi tra la terza e la quarta dimensione. Sciocchezze? Ma è tra la funzione di un oggetto e l’oggetto stesso che sta il ruolo dell’artista”. L’effetto di questo nero è di rendere gli oggetti tridimensionali piatti. Si parla di rivoluzione della scultura, l’arte tridimensionale per eccellenza. Compaiono opere d’arte come fessure, profondità insondabili, buchi, scavi o ferite, simboli del mondo interiore dell’inconoscibile, dell’insondabile, veicoli per mostrare quanto è profondo il vuoto, quanto è profonda la tana del bian coniglio.

Dalla nuova tridimensionalità, ambigua, contraddittoria, nasce una nuova idea di scultura, percepita dall’osservatore quando è di fronte le sculture in acciaio. Sono le opere più coinvolgenti di Kapoor, perché con le superfici specchianti ci conducono in un universo ulteriore. Ci avvolgono in una sorta di metafisica della luce. Sono sculture mobili, a volte anche molto grandi, in cui lo spettatore viene letteralmente risucchiato. Giocano sulla nostra curiosità e anche sulla nostra vanità, essendo degli specchi. Ma il mondo che ne esce fuori è rovesciato, distorto ed esiste solo nel momento del nostro passaggio.

È proposta anche una nuova architettura quella dei vuoti. Nel cortile di Palazzo Strozzi Kapoor rompe tutta l’armonia desiderata e ricreata nel ‘500, con un cubo bianco. Quest’opera site specific fa riflettere tra prospettiva, spazio e tempo. Il visitatore è chiamato ad entrare nel cubo, in un gioco contrapposto tra pieni e vuoti. Kapoor indaga lo spazio-tempo, Il dentro-fuori, chiedendosi quali sono le potenzialità del nostro rapporto col mondo, dato che anche in noi il dualismo esiste, tra corpo e mente.

La sua mostra-progetto mette in discussione le certezze, per farci abbracciare la complessità, per cercare la verità oltre le apparenze, dunque esplorare l’inverosimile e l’irreale, Untrue Unreal. Il finale è aperto.

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