Nicola Genco, lo sguardo dell’arte sul dolore e il naufragio nella mostra al Castello Svevo di Bari

by Gabriella Longo

Simbolicamente, il Castello Svevo di Bari, che svetta sul porto di una terra lambita dalle acque e da secoli attraversata da migliaia di culture, fa da cornice all’evento “Per Mare. Approdi e naufragi”, tutto incentrato sulla tematica dell’immigrazione e del dolore che lo sradicamento comporta. Attraverso una serie di installazioni, gli artisti Duli Caja, Beppe Gernone, Nicola Genco e Romolo Belvedere, aprono uno squarcio non già nella querelle politica, o nell’emergenza sociale, quanto nella vicenda umana dei protagonisti diretti di questa tragica realtà. Ognuno di loro, tramite la propria opera, diventa testimone e difensore dei diritti umani e civili di chi fugge, e non sempre riesce ad arrivare a destinazione.

La proiezione del documentario La nave dolce di Daniele Vicari, ricorda di quel 1991 quando la città di Bari accolse gli oltre 20mila profughi albanesi sbarcati dalla Vlora, in fuga dalla complessa situazione del proprio paese, post-caduta del Muro di Berlino. E Duli Caja, albanese anche lui, identifica i suoi conterranei che vissero quella tragica esperienza, negli oltre 18.000 bottoni di cui è composto l’arazzo Esodo – Il Dolore (2014). “Il bottone nei miei lavori”, spiega Duli, “sostituisce l’essere umano. Il bottone emigra, si accoppia, si conserva, ha una storia, si sostituisce…sopra nel bordo della nave ho messo tanti bottoni colorati che simboleggiano l’entusiasmo di una moltitudine di migranti che lasciano la loro terra, ognuno con delle motivazioni diverse (…)”. Ma il nostro mare è anche sin troppo spesso teatro di dolore, come ricorda Nicola Genco con Kir (2019), una installazione di ceramica e ferro che rimanda al naufragio della Kater i Rades, noto anche come tragedia di Otranto o del Venerdì Santo, sinistro marittimo avvenuto il 28 marzo 1997. La nave, carica di 120 profughi in fuga dall’Albania in rivolta, entrò in collisione nel canale d’Otranto con la corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana, che ne contestava il tentativo di approdo sulla costa. Nel conseguente affondamento, perirono 81 persone.

Nicola Genco, artista putignanese fortemente eclettico, mosso dall’esigenza di dare volto a queste ultime, realizza 81 figure in ceramica dipinta di bianco, disposte su una sagoma scura che ricorda la sfortunata nave.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato.

Come nasce, dunque, Kir?

Kir nasce dopo aver assistito alla emozionante e tragica opera teatrale “Il naufragio – Kater I Rades” messo in scena dal Teatro Koreja e tratto dal racconto “Il naufragio. Morte nel Mediterraneo” di Alessandro Leogrande. Inoltre in quel periodo stavo lavorando su Promenade, e comunque nel corso di questi anni, per caso o per lavoro, ho incontrato persone che hanno vissuto il dramma dell’abbandono della propria terra con cui mi sono soffermato a parlare… fra questi c’è l’amico Remzi, scappato dall’Albania una settimana dopo l’arrivo della Vlora, a bordo di una zattera autocostruita assieme a sette amici, salpati senza apparecchiature, senza telefoni, ma con solo la speranza di raggiungere la costa entro un giorno. Invece la cosa andò diversamente, perché una volta dispersi, vennero ritrovati dopo una settimana e poi trasferiti in un centro di accoglienza a Conversano. Potrei citare altre esperienze umane in questo senso, come l’amico anatomo-patologo che fa autopsie giudiziarie sui cadaveri, al quale chiedevo – pensando romanticamente alla lezione di anatomia di Rembrandt – del coraggio che ci volesse a fare un mestiere del genere. Lui mi rispose che ci si era abituato…ma tranne in un caso, ovvero quando dovette refertare i cadaveri della Kater. Allora non riuscì a dormire per molte notti al pensiero dell’ecatombe che aveva visto: bambini, donne e uomini erano ammassati nella stiva e macerati dall’acqua.

La scelta materica è interessante: come riesce a raccontare questa realtà così drammatica attraverso l’ossimorico accostamento della ceramica al ferro?

Le 81 figure sono di ceramica bianca: non hanno colore perché rappresentano qualunque etnia, età, genere, razza. Il bianco è la sintesi di tutti i colori, ma è anche la tinta dell’innocenza. E poi la ceramica è un materiale duro ma anche fragilissimo, esattamente come la vita di quelle 81 anime. Queste sono poi disposte su una lama di ferro nero, quasi una punta di lancia, come quella del centurione romano che trafisse il costato di Cristo. Allo stesso modo, l’affondamento della Kater è ricordato come la tragedia del Venerdì Santo.

E la lavorazione della cartapesta dalla quale proviene, continua ad influenzarla nel suo approccio a nuovi materiali?

Se per molti la cartapesta è un punto di arrivo, come nel caso del carnevale di Putignano, per me è realmente un punto di partenza, essendo nato e cresciuto tra argilla, colori, pennelli, carta… ed è naturale che nel corso degli anni abbia sentito l’esigenza di cercare e trovare altre forme o materiali per esprimere la “mia” arte, una ricerca continua che però mai dimentica o disconosce ciò che ho ereditato. Anzi, sfruttare le contaminazioni è proprio il punto di forza su cui si basa il mio lavoro, passare con disinvoltura dalla carta al ferro nudo, spesso arrugginito, oppure dal vetro alla ceramica, per poi tornare ai pennelli, ai colori, alla luce…

Torando a Kir…Quale crede che sia il ruolo dell’artista, e di conseguenza anche il suo, difronte a certi corsi e ricorsi della storia e alla luce degli ultimi fatti di cronaca?

Una serie di scariche emotive raccolte in questi anni e rafforzate dai più recenti avvenimenti – vedi Sea Watch e Lampedusa – mi hanno portato a lasciare una mia testimonianza. Non si può e non si deve rimanere impassibili. Sono, siamo persone. Davanti a queste derive dell’umanità un artista, un uomo, deve tracciare una linea, dei segni, più o meno profondi nelle coscienze. Non ha l’obbligo di risolvere i problemi, quello è compito della politica (di quella buona), ma un artista ha il dovere di porre delle domande, di mantenere alta la guardia. L’arte ha il privilegio di vedere un po’ più avanti, grazie alla sensibilità di chi la pratica. A conclusione posso dire che siamo tutti nella stessa drammatica condizione: pretendiamo di chiudere una porta a chi chiede di entrare e lasciamo aperto un portone alle nostre menti, ai nostri figli, che sono costretti a scappare per studiare e vivere. Questa è la grande ipocrisia delle nazioni civili. Mi sento di citare Gino Strada, che ultimamente a Lecce ha detto: “le migrazioni, un fenomeno naturale, solo un cretino può pensare di fermarle”.

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