Passione e impeto, tutta la lotta dei segni di Joan Mirò in mostra al PAN di Napoli

by Antonella Soccio

Nella città italiana più caratterizzata dai segni- dal Golfo col Vesuvio al San Gennaro stilizzato fino a Pulcinella e al babà e a mille altre astrazioni che ne dipingono la complessità- una mostra straordinaria a Mergellina, al PAN Palazzo delle Arti, sta ridisegnando i contorni dello Joan Mirò che tutti conosciamo. Chiunque abbia già visto la sua sterminata opera alla Fondaciò a lui dedicata a Barcellona o sia cascato tra le sue sculture a Palma di Maiorca, nel centro storico più ampio d’Europa, entra al PAN con circospezione, credendo si tratti di una piccola esposizione, di quelle furbe che spesso i Musei italiani mettono ormai in piedi per fare cassa e sensazione.  

E invece chi ama visceralmente Mirò dovrà ricredersi, restando meravigliato dalla cura storiografica dell’allestimento e dal profondo impegno da grandi critici dell’arte del curatore Robert Lubar Messeri, professore di storia dell’arte all’Institute of Fine Arts della New York University, e di Francesca Villanti, direttore scientifico C.O.R., per come sono stati organizzati pannelli, divisione delle opere e audioguida (assolutamente consigliata).

Fino al 23 febbraio 2020 sarà di scena a Napoli dunque l’esposizione dal titolo “Joan Miró. Il linguaggio dei segni”: ottanta tra quadri, disegni, sculture, collage e arazzi, tutti provenienti dalla eccezionale collezione di proprietà dello Stato portoghese in deposito alla Fondazione Serralves di Porto. La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli e organizzata dalla Fondazione portoghese si configura come il più importante evento culturale della stagione autunnale napoletana. Ma forse proprio per il carattere intimo del PAN o per il pregiudizio che possa essere una esposizione con poche opere significative dell’artista, che ha dipinto sin oltre i 90 anni e di cui tutti crediamo già di conoscere lo stile perché abbiamo visto almeno una stella o una macchia gialla su sfondo blu, per ora tra le sale si può godere di una fruizione ancora misurata. Le file per il ticket, per stessa ammissione della reception, non durano più di dieci minuti nei giorni più affollati. E così è: la mostra è ancora molto piacevole con flussi di visitatori normali e “umani”.

L’esposizione del Mirò “portoghese” abbraccia tutta la sua lunghissima carriera, dal 1924 agli anni Ottanta e al PAN si entra nelle varie fasi dell’artista, nell’evoluzione del suo stile, nella sua ricerca, nel suo mondo immaginifico. Dalla calligrafia di un albero alla notissime stelle ad otto punte fino alle sperimentazioni sui supporti e sui materiali più inconsueti, i giochi coi collage, che anticipano tantissimi linguaggi dell’arte dei Ventesimo secolo, come la painting-poetry, l’art brut. Si notano inoltre meglio che altrove le profonde influenze della action painting di Pollock di cui Mirò si invaghi, ormai già adulto, in un suo viaggio a New York. Quello che si vive a Napoli è un intenso itinerario nella materialità che supera le costrizioni della tela e del colore, utilizzando ogni supporto materiale necessario per dare forma a quella sorprendente evasione poetica che caratterizza l’opera di Miró.

Miroglifici, così il celebre scrittore e poeta francese Raymond Queneau nel 1949, nel suo saggio Joan Miró ou le poète préhistorique, chiamò i segni dell’artista catalano per riferirsi alle sue opere pittoriche: lo stesso Miró presentava il carattere semiologico delle sue opere, sottintendendo che i segni impressi sulle sue tele rimandassero sempre a forme concrete, come elementi di un linguaggio verbale. Per lui la forma non era mai qualcosa di astratto, ma sempre il segno di qualcosa.

Ecco allora che sin dalla sua giovinezza l’artista ha cominciato a destrutturare le forme per semplificarle in segni, come già aveva fatto Picasso col Cubismo, ma in un modo nuovo, onirico. Appare evidente questo percorso nella sua Fornarina, che prende le mosse dalla celebre di Raffaello per diventare una forma nuova, semplificata ed essenziale. La sua Fornarina ha delle protuberanze e un occhio a forma di pesce.

Anche nei collage- “non copiavo i collage ma lasciavo che mi suggerissero forme” diceva Mirò- il segno è dominante insieme all’accostamento per associazione, come negli arabeschi di forme dilatate con un torero e il monumento della Ramblas di Barcellona.

Si passa poi nel percorso espositivo all’importante periodo sperimentale con la masonite, dove le forme nevrotiche allucinatorie dell’artista colpito tragicamente nell’animo dalla Guerra Civile Spagnola del 1936 diventano materia. Catrame caseina e agglomerati di sabbia compongono le forme dell’opera, in una esplorazione di mezzi espressivi. Alla fine degli anni 20 l’artista aveva già toccato il suo cruciale punto di svolta nel suo lavoro, con l’uso di mezzi diversi e dei collage appunto, in una fase che definì “antipainting”.

“Volevo fissare il periodo della guerra civile così drammatico e funesto”, scrisse. In mostra ci sono una serie di “Estate 1936”: la massima intensità con il minimo dei segni. Nei lavori con la masonite, Mirò scelse le line nere continue e le forme piene di colore, alcune delle quali si ripetono: l’arcobaleno è un grumo di cerchi concentrici.

Si supera la fase spleen della masonite, nel Museo, per arrivare ad una delle sue tante sculture della carriera in Cera persa e bronzo fuso, il personaggio è uno spaventapasseri dalla bocca larga, mentre poi, proseguendo, si resta incantati nei pezzi migliori e più struggenti di tutta la mostra, lo splendido Canto degli uccelli in autunno del 1937 olio su celotex, reso poetico dalla ruvidezza del supporto e la lunga e stretta tela del suo microcosmo fantastico a rappresentare una porzione di cielo e una bimba di segni che sembra anticipare i cartoon e i manga. Painting, ma qui siamo già nel 1958. Il linguaggio dei segni è diventato più elementare ma anche più pulito e marcato.

C’è una circolazione sanguigna nelle sue opere, “se una forma viene spostata l’equilibrio si spezza” dirà l’artista nel 1968. I suoi segni non sono collocati casualmente sulla tela. La loro geometria si interrompe con i piccoli motivi figurativi, gli uccelli tanto amati, le stelle, i punti, i soli, che si integrano dolcemente, senza salti di tono cromatico, col resto della composizione. I suoi personaggi sono essenziali, perché è la fantasia, l’immaginazione che può aggiungere elementi al segno. L’essenziale non è quello che si irradia dall’opera, ma quello che ognuno sprigiona nel proprio mondo dei sogni.

Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l’ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado.

La mostra si conclude con una importante esposizione dei Sobreteixims, pezzi sopra tessuti che furono protagonisti in una celebre mostra parigina del 1973, la retrospettiva al Grand Palais di Paris. Mirò ottantenne si avvalse di un giovane maestro tessitore, Josep Royo, e combinò materiali ritrovati trasformando la pittura nel mondo degli oggetti e invertendo il rapporto tra la figura e lo sfondo.

Sobretexeim sack, composizioni miste di lana e anche le tele bruciate. In mostra a Napoli insieme al documentario originale che narra di quella idea di fuoco e di caos controllato ve n’è anche una delle 5 realizzate. Le tele bruciate erano concepite da Mirò per essere issate e fatte scendere dal soffitto, lo spettatore avrebbe dovuto girarci attorno, per vedere sia il lato a che quello b entrambi dipinti. Al PAN i buchi della tela bruciata sono proiettati in un gioco di luci sulle pareti.  

Passione e impeto, c’è una lotta tra me e il malessere, la lotta mi eccita

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