PhEst, religione e nuovi orizzonti nel festival di fotografia a Monopoli. Colloquio con Giovanni Troilo

by Anna Maria Giannone

Anche lo sguardo più distratto fino al 3 novembre non potrà fare a meno di imbattersi nella fotografia contemporanea, protagonista a Monopoli di PhEst – See beyond the sea,  festival di fotografia alla sua quarta edizione. L’appuntamento è oramai divenuto un riferimento nell’autunno culturale pugliese, non solo per la rilevanza degli artisti ospiti ma anche per la sua capacità di trasformare la città, mettendosi in dialogo con lo spazio pubblico. Una scelta vincente anche in termini di presenze che, anno dopo anno, crescono in numero e varietà, superando il confine della nicchia di appassionati per parlare a tutti.

Affidato alla direzione artistica di Giovanni Troilo, alla curatela fotografica di Arianna Rinaldo e all’organizzazione di Cinzia Negherbon, PhESt costruisce in ogni edizione una narrazione per immagini che attraversa temi cruciali del nostro tempo, avendo come orizzonte il Mediterraneo. Religioni e miti il concetto con cui si sono confrontati gli artisti in mostra per il 2019 attraverso 16 progetti espositivi, cui si aggiunge un’ulteriore esposizione realizzata con le immagini inviate dal pubblico attraverso il contest #TAGYOURGOD.

Già dal porto vecchio PhEst annuncia la sua presenza con le immagini in grande formato di Daniel Ochoa de Olza, fotogiornalista pluripremiato residente a Città del Messico e Madrid, che per il progetto La Maya, si è ispirato al rituale spagnolo che vede ogni anno bambine tra i 7 e gli 11 anni alternarsi su un altare per strada per dare il benvenuto alla Primavera. Il segno sulla città incontra anche gli occhi bassi dei passanti grazie alle rappresentazioni fra sacro e profano regalate dagli street artist Eduardo Relero, Tony Cuboliquido e Silvio Paradiso. Le esposizioni continuano poi al Castello Carlo V, con la collettiva Seeing Mary, realizzata in collaborazione con National Geographic, nella Chiesa di San Salvatore, una delle più antiche di Monopoli, e a Palazzo Palmieri, meravigliosa architettura tardo barocca.

Un percorso fitto e ricchissimo. Per questo abbiamo chiesto al direttore artistico Giovanni Troilo di guidarci alla scoperta delle mostre in programma.

Religioni e Miti è il tema che affronta l’edizione del 2019, quale urgenza dietro questa scelta?

PhEst, come si legge nello stesso nome scelto per il festival, è un invito a guardare oltre il mare, verso i Balcani e il Medio Oriente, fino all’Africa. In questa direzione ci è sembrato doveroso porre l’attenzione sulle religioni che attraversano il Mediterraneo e sulle rappresentazioni legate a questo tema. Abbiamo scelto di sviluppare il concetto proponendo una duplice lettura, due percorsi di visione fra i lavori degli artisti in mostra: il primo più oggettivo e di documentazione, il secondo più emotivo e personale.

Ci può guidare attraverso questi due itinerari in mostra?

Il primo percorso, quello che ho definito più oggettivo, parte al primo piano di Palazzo Palmieri, dove sono concentrate le maggior parte delle mostre in programma. Qui incontriamo subito il lavoro di Norman Behrendt, un’indagine sul potere politico della religione nella Turchia di Erdogan, in cui ogni anno vengono costruite più di mille moschee. Da qui passiamo a un lavoro su Israle: Roei Greenberg ha lavorato lungo su La Grande Valle del Rift, la strada che delimita i confini fisici di Israele e che simbolicamente rimanda alla frattura politica religiosa che su quell’area c’è da sempre. Ci spostiamo poi verso una visione più ironica sulle religioni, con lo sguardo dell’americano Jesse Rieser sul Natale americano fatto di gadget e contraddizioni. Giulia Bianchi ha documentato la realtà delle donne prete, un movimento nato in seno alla religione cattolica che rivendica la parità di genere anche all’interno della chiesa. A chiudere questo primo piano, Alessandro Gandolfi riflette sull’uomo che diventa dio, cercando l’immortalità attraverso la manipolazione del dna. Il piano nobile di Palazzo Palmieri, per conformazione stessa delle stanze, è più adatto ad una visione estatica: di qui iniziamo un viaggio più intimo nella religione, incontrando subito il lavoro della messicana  Alinka Echeverría che ha seguito i pellegrini in viaggio verso la Vergine di Guadalupe a Città del Messico. Questa ricerca spasmodica della madonna ci porta alla sala affrescata con le gigantografie delle Madonne Maddalene realizzate dalla fotografa italo tedesca Julia Krahn. Il lavoro di Michela Benaglia offre, invece, uno sguardo su riti più o meno pagani che prevedono l’uso della maschera, diffusissimi in Italia. Una totale irrazionalità emerge dal  lavoro di Lisa Ambrosio che, attraverso l’indagine sulla stregoneria messicana, affronta potenti temi personali come il rifiuto della famiglia nei suoi confronti. Si prosegue con le fonti battesimali immortalate dalla fotografa ungherese Boglárka Éva Zellei. Sempre a Palazzo Pamieri, nell’androne di ingresso, lo spettatore è accolto dalle grandi chiese verticali di Richard Silver  che, con una personale tecnica di ripresa, ha fotografato oltre quattrocento chiese nel mondo offrendo un punto di vista inusuale sulle architetture sacre. L’esplosione di questo lavoro si ha a San Salvatore, bellissima chiesa sul mare, in cui le grandi immagini di Silver creando un effetto spiazzante cattedrale infinita.

Come ogni anno ci saranno anche lavori nati dal confronto diretto fra artisti e territorio. Quali sono i progetti realizzati per questa edizione?

Si, PhEst vuole mettere in connessione storie che arrivano qui a Monopoli, provenendo dal Mediterraneo, con sguardi esterni, capaci di raccontare in modo nuovo la nostra terra e la nostra identità. Alla base c’è la volontà forte di lavorare nel territorio per produrre un immaginario nuovo. Una visone che sin dall’inizio abbiamo condiviso con la Regione Puglia. Sul tema di questa edizione abbiamo lavorato con Sanne De Wilde, fotografa fiamminga, neovincitrice del World Press Photo. Con lei abbiamo girato tutta la Puglia alla scoperta delle feste patronali di agosto, un tour fra passato e futuro che ha prodotto il lavoro Land of Ibeji. Altro lavoro, nato per il festival in collaborazione con Tormaresca, è quello di Piero Percoco, fotografo di Sannicandro di Bari che ha realizzato grandi installazioni di santi sotto cellophan:  sono le immagini sacre che abitano nelle case pugliesi, quasi componenti della famiglia. Un lato molto intimo e quotidiano della religione.

Il festival si svolge a Monopoli da 4 anni, quale rapporto si è sviluppato con la città?

Vogliamo che i monopolitani sentano propria la manifestazione e si affezionino ai singoli lavori degli artisti. Questo è  possibile grazie alla relazione che cerchiamo di sviluppare fra il festival e la città. Fin dalla prima edizione, infatti,  abbiamo scelto di installare una parte delle opere negli spazi pubblici, in modo per attrarre non il solo pubblico abituale ma anche il passante incuriosito: sono le mostre che cercano un rapporto con il pubblico, andandogli incontro. Il festival si riappropria della città anche attraverso l’utilizzo di luoghi normalmente non visitabili, come Palazzo Palmieri: un’opportunità per i turisti ma anche per gli stessi abitanti che, con grande orgoglio, possono riscoprire bellezze.

Una grande voglia di partecipazione del  pubblico che emerge anche dal successo dei contest sui social.

Ogni anno lanciamo, in modo giocoso, una call attraverso i social, invitando il pubblico a confrontarsi con il tema del festival. Quest’anno stiamo avendo una risposta bellissima, non solo per la quantità di immagini arrivate − quasi 700 foto ad oggi − ma anche per la qualità delle fotografie. Il pubblico ci sta restituendo uno sguardo profondo e vario sull’idea di religione. Proprio per questo abbiamo deciso di ospitare come diciassettesimo progetto in mostra una selezione delle immagini arrivate con l’ashtag #TAGYOURGOD.

Questa edizione ha avuto un’anteprima a Bari al Teatro Margherita: si sta aprendo una strada verso il capoluogo pugliese?

Già l’anno scorso, nel mese precedente all’inaugurazione del festival, abbiamo esposto una parte delle mostre dell’edizione passata nell’ambito del Locus. È un modo per dare uno sguardo sull’edizione conclusa e ricordare l’arrivo della nuova. Ad oggi la sede del festival rimane Monopoli, che è nel logo stesso di PhEst. Questo non ci nega la possibilità di collaborazioni e progetti altrove: abbiamo molte mostre itineranti, ospitate sia in Puglia che in contesti nazionali. Ora stiamo lavorando a un progetto molto importante a Roma.

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