World Press Photo Exibition torna al Teatro Margherita di Bari con le questioni globali fino al 13 novembre

by Alesssandra Nenna

Una volta qualcuno ha detto che se si resta fermi in un posto abbastanza a lungo potrebbe passarti davanti il mondo intero.

A Bari da quasi un decennio esiste un luogo in cui questa previsione, ancorché auspicabile, è diventata possibile. Il capoluogo pugliese è parte di un elenco di 70 città che ospitano annualmente il World Press Photo, l’esposizione fotografica giunta quest’anno alla sua 65esima edizione, che premia gli scatti più rappresentativi realizzati da fotoreporter professionisti per le maggiori testate giornalistiche internazionali. Merito di Cime, realtà pugliese tra i maggiori partner europei della Fondazione World Press Photo di Amsterdam e che, con il sostegno della Regione Puglia, del Teatro Pubblico Pugliese e dell’Assessorato alle Culture del Comune di Bari, ha permesso di allestire la mostra nella storica cornice del Teatro Margherita.

Per saggiarne il prestigio basti pensare alla foto premiata dalla Fondazione nel 1990 divenuta il simbolo per eccellenza di una rivolta silenziosa, quella di un uomo che l’anno prima, nella sua pacifica immobilità, aveva fermato i carri armato in Piazza Tienanmen.

Il mondo da allora ci sfila davanti con la medesima intensità e attraverso la fissità delle immagini continua a urlare in silenzio le proprie urgenze: dal rapporto conflittuale uomo-natura, ai cambiamenti climatici, alla lotta per i diritti fondamentali, dal valore della libertà di stampa alla difficoltà di distinguere verità e fake news. Le questioni globali non possono però prescindere dal particolare, risultando perfino più coinvolgenti, perché nel dolore privato, nelle storie di coraggio di chi resta, nelle espressioni disarmate di chi tace, spesso raccontate in progetti a lungo termine, c’è un’umanità in cui provare a specchiarsi.

In numeri, il World Press Photo ha raccolto per questa edizione le candidature di quasi 65mila opere da 4.066 fotografi provenienti da 130 paesi. I 134 scatti premiati sono stati selezionati con una formula innovativa attraverso la quale ne ha giovato la stessa struttura espositiva che risulta di più alto impatto visivo ed emotivo. Le opere sono state inizialmente suddivise non più per tematiche bensì per aree geografiche: Africa, Asia, Europa, Nord e Centro America, Sud America, Sud-est asiatico e Oceania. “È l’unico contest in cui i temi emergono a posteriori – ha spiegato Simona Ghizzoni, presidente della giuria regionale Europa durante la visita guidata nella giornata di apertura ufficiale, lo scorso 30 settembre -. Temi che attraverso la reiterazione mettono in luce necessità, cambiamenti di paradigma, punti di forza e di rottura, connessioni vincenti tra progresso e tradizione. Abbiamo ricevuto circa 25mila proposte per l’area Europa su cui abbiamo lavorato per quaranta giorni consecutivi. Di queste, 600 sono state le foto ammesse alla discussione con la giuria globale composta dai presidenti delle macro-aree geografiche da cui sono stati estratti i 24 premiati, ovvero 6 per macro-area e da quelli i 4 vincitori finali. È stata fondamentale e arricchente questa innovazione nella procedura di selezione – ha continuato la Ghizzoni – perché ciascuno dei presidenti ha potuto raccontare il proprio contesto di riferimento e la motivazione per cui proponeva l’opera o il lavoro di un determinato fotografo. Un esempio su tutti – ha continuato -, la foto che ritrae una donna in jeans nel gesto di lanciare un lacrimogeno durante una protesta. Ecco, sapere che questo scatto ha come sfondo un paese africano si carica di significati più ampi: parla di una rivoluzione del movimento delle donne e di un impatto nella società civile”.

Altra novità di questa 65esima edizione l’inserimento dell’Open Format che assieme alle categorie Foto singola, Storie, Progetti a lungo termine ribadisce apertura e rinnovamento rispetto alle ferree regole del passato per cui le opere non potevano subire alcuna modifica. Oggi la commistione di tecniche e formati accoglie invece video, ma anche inserti materici. Ne sono esempio gli scatti di Rehab Eldalil che ha voluto restituire dignità alla comunità di beduini Jebeliya che vivono nel sud del Sinai, discriminati perché considerati collaborazionisti durante l’occupazione israelita.

Il foyer del teatro barese sospeso sull’acqua, si è così trasformato in un luogo di confine tra mondi, un varco magico che permette al visitatore di aprirsi a un’esperienza di silenzio e riflessione, di comunanza con uomini che in altre latitudini barattano ogni giorno un metro di terra o di sopravvivenza, e i cui nemici non sono sempre visibili. Ci sono le immagini del reporter australiano Matthew Abbott che si è aggiudicato il premio “Storia dell’anno” documentando il rito degli indigeni Nawarddeken. La comunità, grazie a conoscenze tramandate da secoli, usa la “combustione a freddo” per bruciare il sottobosco e rimuovere l’accumulo di residui vegetali che potrebbero alimentare incendi più grandi contribuendo a ridurre il riscaldamento globale. Su un’altra parete scorrono invece, di Bram Janssen, alcuni scattidell’Ariana Cinema di Kabul dove gli uomini sono gli unici ancora ammessi a lavorare dopo la presa del potere da parte dei talebani nell’agosto 2021. Asita Ferdous, ex direttrice, è ritratta seduta sul divano della sua casa, estromessa dal suo incarico. Resiste il tema (e gli effetti) della pandemia nel racconto pop dei ritratti di Irina Werning alla chioma di Antonella, una ragazzina di dodici anni Buenos Aires, che ha atteso così di soddisfare la promessa di tagliare i lunghi capelli (oggetto degli scatti della fotografa) quando fosse stato sancito il rientro in presenza a scuola.

Alle espressioni di attesa divertita della piccola Antonella si sovrappongono quelle confuse e smarrite che sugellano il contrasto inconciliabile di un copricapo di piume e un paio di snikers indossati da chi si approssima a un viaggio di protesta. Il World Press Photo si fa documento quando mette al centro la presenza umana che chiede e ottiene riconoscimento, ma diventa protesta urlata e non violenta nella sua assenza. La foto dell’anno 2022 e, per assonanza la menzione d’onore assegnata all’italiana Viviana Peretti, raccontano più del dramma di una scomparsa, l’incapacità in alcuni momenti, di arginare l’inumano. Che appunto, diventa invisibile. La canadese Amber Bracken ha documentato per il New York Times il tragico ritrovamento nel giugno 2021 dei corpi di 215 bambini in una tomba rinvenuta nei pressi della Kamloops Indian Residential School nella Columbia britannica. La Kamloops era la più grande tra le tante scuole aperte alla fine dell’Ottocento per l’assimilazione forzata dei nativi indigeni a opera di missionari e colonizzatori europei. Una Commissione per la Verità e riconciliazione ha concluso che in queste scuole morirono almeno 4100 studenti.

Una lunga fila di croci di legno delimita un campo incolto. Su ognuna, come se fossero appendini, trova posto un piccolo abito di cotone grezzo colorato. Il cielo è ricoperto di nuvole pesanti, di tutte le sfumature del grigio tranne per uno scorcio. Attraverso quello spazio si scorge dell’azzurro. Ed è sempre lo stesso varco da cui filtrano quei raggi di sole che, con tutta probabilità hanno consentito il formarsi di un arcobaleno, così netto ed evidente in tutti i suoi sette colori che sembra disegnato dalla mano di un bambino. Il cielo ha smesso di piangere e l’arco colorato è il segno di una pace ritrovata.

La mostra sarà visitabile fino al 13 novembre. È aperta tutti i giorni dalle 10 alle 21, il venerdì e sabato fino alle 23. Per tutte le agevolazioni all’ingresso, visitare il sito web: www.worldpressphotobari.it

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.