Da grafica a chef stellata, la storia di Cristina Bowerman

by Claudia Pellicano

Larger than life è una di quelle espressioni tipicamente americane che meglio si attaglia a descrivere il carattere e il percorso di Cristina Bowerman, la chef cerignolana che approda negli Stati Uniti e realizza quello che potremmo definire , a tutti gli effetti, “il sogno americano”. La chef stellata di Glass Hostaria ci racconta la sua vocazione creativa tra sfide e impegno nel sociale, in quell’ambiente che ha sviluppato qualcosa di molto simile a una «nuova religione».

Lei ha un excursus molto eclettico e interessante: dagli studi in giurisprudenza è arrivata alla cucina: può raccontarci come è nata questa passione?

Il passaggio fondamentale è stato intermedio, dagli studi in giurisprudenza e dal praticantato a quello di disegnatrice grafica. Io mi sono trasferita negli Stati Uniti con l’intento di continuare gli studi legali ma, durante il mio percorso, mi sono ritrovata ad essere impiegata da una compagnia proprietaria di sedici ristoranti.
Mentre lavoravo per loro, mi sono accorta della mia vena creativa. Fino ad allora non mi ero mai preoccupata di sviluppare la mia anima artistica. Trovandomi in questa compagnia ho avuto, invece, la possibilità di essere esposta a un gruppo di persone che mi ha fatto scoprire la bellezza e l’intensità dell’espressione creativa. Ho chiesto, quindi, al mio capo, se mi concedeva di poter passare il mio tempo “libero” nel reparto grafico. È cominciata così. Per i successivi 10 anni ho lavorato come disegnatrice grafica.

Che ha portato, poi, alla cucina italiana. Cosa la rende, tuttora, così straordinaria e rinomata nel mondo?

È una domanda molto complessa. La cucina italiana è molto amata nel mondo, ma al pari di tante altre cucine. Forse è più comune e sviluppata, e questo è dovuto anche all’intensità e alla rotondità del profilo del gusto italiano, ma è anche dovuto al fatto che gli italiani hanno viaggiato moltissimo. Siamo un popolo di emigrati, che entrando in contatto con altre culture, hanno permesso la diffusione della nostra tradizione enogastronomica. A nostro vantaggio, c’è la facilità con cui si acquisiscono gli ingredienti – il pomodoro, i carboidrati, la farina, la pasta si trovano abbastanza comunemente. Queste sono le spiegazioni dal punto di vista tecnico; se volessimo dare delle spiegazioni anche romantiche, potremmo aggiungere che la cucina italiana ha anche un sapore pieno e rotondo, non spigoloso come altre cucine. Non ha, se vogliamo, picchi di gusti più definiti e spigolosi. Parliamo di gusti che sono accettabili o comunque riconoscibili da una grandissima parte della popolazione. È una cucina unificante, unisce anche dal punto di vista della convivialità, legata a doppio filo al concetto di cucina italiana. Uno dei miei primi ricordi è la crema pasticcera preparata assieme a mio padre. La nostra cucina crea relazioni umane.

Qual è, se c’è, la differenza tra cucinare in Italia e negli Stati Uniti? Quali sono le sfide per la cucina italiana all’estero?

La differenza fondamentale la fanno gli ingredienti. Io credo che determinati ingredienti debbano assolutamente essere consumati in Italia. Per esempio, mi sono sempre schierata contro l’importazione della mozzarella di bufala, perché ritengo che determinati alimenti debbano essere anche il punto di riferimento e di attrazione per un turismo enogastronomico.
Come sappiamo, purtroppo, o per fortuna, l’esportazione di determinati prodotti e il format italiano sono diventati talmente popolari che gli stessi italiani hanno un po’ contaminato la nostra cucina, rendendola più “locale”.

Nel 2016 ha ricevuto il plauso del Consolato americano per aver promosso il dibattito sulla sicurezza del cibo e per essere, oltre che delle tradizioni italiane, una delle ambasciatrici della cultura culinaria americana nel mondo: qual è il suo rapporto con gli Stati Uniti? Cosa le ha insegnato l’esperienza americana?

Io mi ritengo tanto americana quanto italiana  Mi sono formata come persona e come professionista negli Stati Uniti, dove ho acquisito tantissime abitudini tipiche americane, di cui sono orgogliosa . Io oggi mi ritrovo nella mia posizione per la mia formazione in America. Sono convinta che, se fossi rimasta in Italia, non sarei arrivata a questi livelli. La professionalità, la caparbietà, il sogno americano rappresentano quelle forze che si acquisiscono vivendo lì. Pensare di poter arrivare per merito dove altri magari non ce l’hanno fatta è una punto di forza esclusivo degli Stati Uniti.

È stata l’unica donna tra gli Chef Ambassador di EXPO e l’unica presenza femminile a Taste of Roma: per le donne è ancora difficile emergere in quest’ambiente?

Per le donne è difficile emergere in qualsiasi ambiente professionale; se pensiamo ad altri campi, si verificano le stesse condizioni. Finché ci saranno esponenti della mia o di altre categorie che continuano ad affermare assurdità, tra le quali il fatto che le donne non possano essere chef perché devono restare a casa ad occuparsi dei figli, o perché, solo per fare un esempio, non potrebbero sollevare pesi al pari degli uomini (come se poi il lavoro degli chef consistesse nel sollevare sacchi di farina), il dibattito continuerà ad essere inconsistente.

In un periodo di così grande fermento attivista, cosa pensa della campagna antispreco lanciata in Francia? Quali sono i comportamenti più irresponsabili che teniamo nei confronti del cibo e quali politiche o tendenze  dovrebbero cambiare per nutrire davvero il pianeta?

Io e gli Ambasciatori del Gusto, associazione di cui sono Presidente e che racchiude rappresentanti molto importanti della cucina italiana, siamo molto impegnati, in Italia e all’estero, con diverse campagne che abbiamo promosso e alle quali abbiamo partecipato noi stessi. L’ecosostenibilità e i problemi del cambiamento climatico sono argomenti che ci stanno molto a cuore, e poiché nasciamo, come la fenice, dalle ceneri di EXPO, siamo partiti proprio dai temi affrontati in quell’occasione.

La lotta allo spreco è fondamentale: Cesare Battisti, il segretario della nostra associazione, è attivamente impegnato proprio in questa campagna (come utilizzare tutti gli ingredienti, compresi quelli considerati di scarto). Siamo abituati a vedere frutta e verdura perfetta e intatta , che presuppone che, per quella mela o quella pesca selezionate, altre dieci siano state buttate. In questo senso, Viviana Varese è un’ambasciatrice che spinge l’utilizzo di frutta e verdura non “belli”. Contiamo molti esponenti impegnati a diventare questo genere di modelli di riferimento.

Che cosa pensa della gastronomia molecolare, la disciplina che studia le trasformazioni chimiche dei cibi durante la loro lavorazione? È d’accordo con chi afferma che potrebbe essere un valido aiuto per risolvere il problema della fame nel mondo?

Gastronomia molecolare è un termine molto vago, tutto è molecolare, anche il sale che si scoglie nell’acqua innesta una reazione chimica. Certamente l’utilizzo di determinati ingredienti o processi, a volte naturali, a volte indotti, possono risolvere alcuni problemi. Le armi fondamentale restano la conoscenza e l’educazione. Fare informazione, che, tra l’altro, è uno dei progetti che noi ambasciatori stiamo seguendo e sviluppando, serve a questo. Nell’educazione che cerchiamo di trasmettere quando andiamo fuori per la settimana della cucina italiana in realtà facciamo proprio questo: cerchiamo di rappresentare ingredienti “poveri”, poco utilizzati, o di scarto. Apprendere come utilizzare determinati ingredienti, che sono molto nutritivi, può aiutare l’economia.

È tra le fondatrici di Fiorano for Kids, l’associazione di beneficenza a favore del Bambin Gesù di Roma: qual è, ad oggi, il bilancio dell’iniziativa e quali progetti avete per il futuro?

Il progetto iniziale continua a essere sostenuto, assieme ad altri progetti collaterali. Come onlus non possiamo realizzare profitti, e avendo questo esubero di denaro rispetto alle esigenze del Bambin Gesù,  ci è stato permesso di guardare altrove e sovvenzionare altre situazioni sempre legate ai bambini. Fiorano è i bambini che aiutano i bambini.

In un libro molto divertente, Gianni Mura racconta come una volta, per orientarsi su dove mangiare, si guardava  dove parcheggiassero i camion (segno di una «mangiata omerica a basso costo»); in mancanza di camion, consiglia di vedere dove vanno a mangiare gli indigeni, operai e impiegati, e non i personaggi col Rolex e l’auto di rappresentanza. Oggi come ci si orienta, specie se non si è degli esperti? E quanto ci si può fidare delle recensioni online?

Il mito dei camionisti è passato di moda, per quanto riguarda le recensioni, come tutto quello che succede online,  va preso con intelligenza, maturità e grano salis. Possono essere utili, ma esattamente nelle stesse modalità con cui si vede Masterchef, con la consapevolezza che non è quello lo scenario nelle cucine. Bisogna prendere il buono – le ricette, la professionalità, gli insegnamenti degli ottimi conduttori – ma pensare che quello che succede nei programmi sia una rappresentazione della realtà delle cucine è falso.

A che cosa si deve il successo mediatico degli chef e dei programmi di cucina? Che cosa simboleggia, oggi, il cibo?

Oggi il cibo è importante anche dal punto di vista mediatico perché la religione non è più il carattere distintivo di una persona. Il cibo è il nuovo elemento identitario. «Dimmi cosa mangi, e ti dirò chi sei». Se si è vegetariani o vegani si è buoni, se si è carnivori, un po’ meno. La tendenza mondiale è un po’ questa, molto legata, secondo me, anche a una forma di egocentrismo. Tutto ruota attorno al cibo e all’individuo. Si lavora soprattutto sul proprio benessere e sulla propria longevità, sul desiderio, forse, di essere immortali. Quando mi guardo intorno, cerco di esercitare un certo distacco, ma è quasi impossibile. Siamo circondati da prodotti di bellezza e integratori alimentari che esprimono la volontà di restare sempre gli stessi, nonostante gli anni che passano, il che è impossibile. Non è soltanto il benessere fisico e mentale, che potrebbe essere anche un ottimo risultato da raggiungere, è il timore di invecchiare, di essere mortali. In questo periodo, quando vedo quest’attitudine comune, quello che mi viene in mente è la paura dell’invecchiamento. Da qui, quello che ingeriamo, diventa fondamentale a mantenere un certo standard.

Saluto la chef, che si dirige a prendere i bambini a scuola, e penso che, d’ora in poi, mi abituerò a fare la spesa con occhi un po’ diversi.

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