Lo spazio e il tempo come frammenti d’infinito: il fuoco dei visionari. L’architetto Pertosa e la lotta alla banalità

by Antonella Soccio

La banalità ci seduce con l’abitudine, ci conquista col conformismo e ci sfinisce con l’apatia.”

Enrico Maria Secci

Lo Studio Arkfrequency architects fondato dall’architetto Roberto Pertosa indaga su soluzioni architettoniche innovative, rivolte alle esigenze della vita contemporanea, operando a 360° nei campi dell’Architettura, dell’Urbanistica, del Landscape e dell’Interior design, e il cui lavoro è caratterizzato da una particolare attitudine sperimentale che tenta di condizionare la percezione dello spazio fisico e di quello concettuale, contribuendo, tramite lo strumento grafico e la rappresentazione figurativa, alla formazione di una coscienza architettonica attraverso la memoria e l’astrazione, e riportandosi alle capacità impressionistiche dello sguardo architettonico.

Da tempo il professionista rifugge da idee preconcette e conformismi progettuali.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato.

Architetto Pertosa, cosa è per lei la banalità che ci pervade e condiziona le nostre esistenze?

Certo, purtroppo la banalità ci consuma inesorabilmente, e non solo nell’ambito dell’Architettura, in quanto molto spesso il senso comune di percezione della realtà risulta sconfortante, e possiede un fare scomposto perché privo di ogni basica cognizione e illuminante prospettiva.

Ed è in tali miseri ambiti mentali che l’ordinario tende sempre a riemergere annullando minuziosamente la fragranza del sogno.

A quali ambiti mentali si riferisce?

Gli ambiti con cui ci si confronta quotidianamente. Ogni giorno, ogni bravo Architetto si sveglia con il pensiero triste di dovere affrontare burocrazie e burocrati, o anche cattivi committenti se non è strutturato tanto da poter selezionarli, abbandonando spesso la speranza di potere aspirare a progetti di Architettura.

Questi strani individui in via di estinzione, anche quelli fortemente desiderati dalle committenze per le loro capacità, e che hanno quindi il potere di “imporre” regole precise, perdono comunque e costantemente ogni reputazione agli occhi della comunità per colpa dei cattivi architetti che sfornano mostruosità degne di essere abbattute. E basta guardarsi intorno.

Questo è il segno del fallimento delle università, degli ordini professionali, della burocrazia che regna negli uffici tecnici dei Comuni, ma anche delle norme che regolano i lavori pubblici.

Infatti tutta l’impalcatura normativa sui LL.PP. non mira a perseguire la qualità delle opere da realizzarsi nei tempi giusti e a costi congrui, ma é impegnata a evitare ad esempio infiltrazioni criminose nei procedimenti, perdendo di vista l’originario obiettivo rivolto alla bellezza e alla funzionalità del costruito.

E allora quali possono essere le nostre difese?

La competenza, il talento, la professionalità, tramutate in visione. E la speranza, o l’illusione, che esista qualcuno che sia in grado di riconoscerle.

Ma è vero anche che oggi si adopera molto, e si abusa, del verbo “sognare” dietro il quale si nasconde spesso il vuoto spirituale più desolante.

Molti, inverosimilmente, parlano di visioni e di sogni. Molti hanno l’illusione di prevedere quale sarà il futuro, o quanto, nell’ambito della verisimiglianza e della possibilità, dovrà accadere.

Ma per essere all’altezza di essere considerati dei visionari occorre essere innanzitutto strenui oppositori dell’ordinario e, soprattutto, essere dotati di spessore culturale. Si, perché è necessario un approccio intellettuale.

Non ci si improvvisa sognatori senza possedere la capacità di sognare. E per essere capaci di sognare occorre essere capaci di inventare cose mai viste, cose che ci facciano a loro volta sognare. E questa percezione appartiene solo a quei pochi che sono in grado di generare una dinamica proiezione rivolta verso il futuro che abbia la capacità di convincere che l’utopia della visione è solo ciò che rifiutiamo di immaginare e realizzare.

Ed è l’incapacità di vedere le cose in maniera diversa, originale, creativa, la misera pochezza interiore che impedisce di percepire l’orizzonte in cui immergersi, che fa pensare che non ci sia più nulla di nuovo da dire o da scoprire.

E questo limite genericamente e geneticamente diffuso crea sistematicamente la deflagrazione della banalità.

Quale deve essere allora in questo caso il ruolo dell’Architettura per scongiurare questo pericolo? Quale il ruolo dell’Architetto?

L’Architettura deve rispondere a domande complesse, risponde sulla logica consapevolezza di come essa stessa sia definitrice di civiltà. Creare Architettura è sempre uno scopo per dare forma al nostro destino, e ogni gesto architettonico deve sempre partire da un’idea, da un concetto, con la costante tensione verso la bellezza da coniugare sempre con la funzionalità, per dare origine a opere architettoniche autentiche, dotate di intimo significato. In Architettura infatti nulla è mai casuale, niente è mai puramente estetico o soltanto tecnico. Tutto ha un significato e un fine. Un costante pensiero poetico codificato o codificabile.

Oggi si ha paura di sperimentare (o non è concesso? o non si è capaci?). I nuovi progetti, specie quelli che sostituiscono o stratificano l’esistente, sono tristemente codardi e casuali, privi di significato, cercano di esaurirsi nell’efficienza energetica o sicurezza sismica che invece devono semplicemente essere solo appendici da apporre al processo metaprogettuale necessario all’innovazione concettuale e spaziale.

Ogni opera dovrebbe essere invece un atto di fede e di fedeltà a un certo approccio del fare Architettura, amplificando l’espressione della contemporaneità.

L’architettura è per commuovere, e un vero Architetto deve pensare allo spazio di vita.

Quindi un atto di fede tramite il quale l’Architettura esprime significati densi rivolti alla ricerca della verità.

L’Architettura come processo di sintesi di un’elaborazione colta evoluta nel tempo che deve comunicare, cioè chiarire il punto di vista dal quale l’Architetto osserva il mondo e la storia dei luoghi.

Personalmente cerco sempre di sviluppare, nei miei progetti, visuali prospettiche mutevoli, sempre variabili, che diano ai fruitori la percezione di continuo movimento, la sensazione di una dilatazione spaziale e temporale mai statica, come se l’Architettura fosse una superformula che deve insinuarsi nell’intimo e sconvolgere i sensi, aprendo verso orizzonti inesplorati che generino un susseguirsi di emozioni, un effetto domino di pensieri.

Un vero e proprio processo di trasmigrazione della conoscenza?

Si, l’Architettura non è altro che una forma di conoscenza della realtà, il risultato di un processo di ricerca della forma più rispondente alla natura delle cose.

La forma infatti è il risultato di un percorso razionale che non ha solo a che vedere col fantasioso o l’arbitrario, ma che procede di scelta in scelta, dalla complessità all’essenzialità, fino al punto in cui nulla può essere aggiunto e nulla tolto. E comunque un’Architettura a servizio dell’uomo per l’intera esistenza, ricontemplando la lezione di Le Corbusier della “recherche patiente”.

Architetto, è come precipitare in un baratro levitando nel vuoto trascinati da un vortice dolce. È affascinante ma estremamente complesso. Ma cosa intravede oltre il buio? Qual è la luce che vorrebbe raggiungere?

Quello che io cerco è la “prospettiva”, l’illusione di “profondità”. Altrimenti ci sono solo due dimensioni su un enorme piano di dettagli. Altrimenti vivi nel presente. Che non è dove voglio trovarmi. Cerco di trasformare lo spazio e il tempo in frammenti di infinito. E a volte è sufficiente un cambiamento di prospettiva per vedere la luce, scegliendo di volta in volta quella dalla quale osservare, selezionando la tua costante e benefica illusione.

Un’illusione che non è affatto rarefatta ma ben precisa, solida. È una percezione sensoriale che possiede una consistenza, come fosse un odore o un sapore che permette di riconoscere un luogo.

Io aspiro solo a possedere il fuoco dei visionari.

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