«L’umanità è incorporata nella tecnologia». L’umanesimo digitale delle Fabbriche Culturali di AGO Modena

by Anna Maria Giannone

Quarantamila metri quadri per abbattere le barriere fra sapere scientifico e sapere umanistico. La città di Modena si appresta realizzare uno dei centri culturali più imponenti in Italia negli spazi dell’ex Ospedale Sant’Agostino dove sorgerà la sede di AGO Modena Fabbriche Culturali. Missione culturale dell’ambizioso progetto è quella di collegare arte e tradizione umanistica, cultura scientifica e innovazione, dando vita a una struttura capace di cucire insieme il lavoro di chi si occupa di materie umanistiche, di scienza, di tecnologia, di intelligenza artificiale, di innovazione educativa.

Situato nel cuore di Modena, in una parte significativa del centro storico della città sia dal punto di vista urbanistico che storico e culturale, AGO lega il suo percorso alla riqualificazione di un’ampia area che riunirà a sistema il complesso costituito dall’ex Ospedale Sant’Agostino, dal Palazzo dei Musei, dall’ex Ospedale Estense.  Un grande progetto culturale e architettonico che ha mosso i primi passi nel 2005 e che oggi vede fra i partner principali la Fondazione di Modena, Comune di Modena, Università di Modena e Reggio Emilia, MIBACT con le Gallerie Estensi.

Dal 4 febbraio 2021 AGO Modena Fabbriche Culturali ha avviato un nuovo programma culturale con un nucleo di eventi che percorrerà tutto l’anno: quattro stagioni tematiche attorno a cui si impegneranno i suoi partner principali generando una rassegna di incontri con modalità di svolgimento dal vivo e online. “Un progetto immateriale che si rivolge a una platea il più larga possibile e che parte dal riconoscimento della necessità di porre a tema le innovazioni, le prospettive e le potenzialità che le nuove tecnologie conferiscono alla cultura umanistica” spiega, Daniele Francesconi, dal 2020 responsabile del progetto culturale. Noi di bonculture l’abbiamo intervistato.

Per le dimensioni dell’intervento, per l’ampiezza e la qualità dei partner coinvolti, AGO Modena Fabbriche Culturali rappresenta uno dei progetti culturali più importanti e significativi degli ultimi anni a livello nazionale.

Un progetto molto ambizioso che risponde a un’esigenza del nostro tempo che è quella di accorciare le distanze fra le diverse culture, fra la così detta cultura umanistica e quella scientifica. Dico così detta perché, a mio avviso, i processi di conoscenza, di ricerca e di formazione sono un unico continuo. È vero però che ci sono demarcazioni istituzionali, resistenze mentali che occorre superare e questo è un progetto che ha come ambizione proprio questa: guardare alle conseguenze che la rivoluzione tecnologica ha comportato ed esplorarle sul piano dei concetti, delle elaborazioni artistiche, cercando di comprendere anche quali sono le potenzialità delle tecnologie per la conservazione ma anche per il rinnovamento della cultura.

Quella di AGO è un’operazione dal grande impatto anche urbanistico sulla città di Modena. Come si svilupperà il progetto di riqualificazione?

AGO avrà una casa, nasce da un progetto di riqualificazione dell’ex ospedale Sant’Agostino, un’operazione che avrà un impatto sul sistema urbano collegandosi anche all’attuale Palazzo dei Musei e che mira a costituire una sorta di quartiere della cultura in cui diverse istituzioni confluiranno. È importare guardare anche all’articolazione istituzionale di questo progetto, promosso da Comune di Modena, Fondazione, Università di Modena e Reggio Emilia e, nel protocollo originario anche il Mibact. Attraverso queste istituzioni AGO mette assieme moltissime realtà culturali, museali, bibliotecarie, educative, centri per la digitalizzazione del patrimonio, istituzioni artistiche. Un grande campo di gioco che è compito di AGO federare e sintonizzare, sia attraverso la proposizione di processi istituzionali sia attraverso lo sviluppo di processi culturali.

AGO ha una storia che parte nel 2005. A che punto del processo si è arrivati?

Il progetto ha una lunga storia e adesso sta arrivando in qualche modo a maturazione con l’avvio di tutta una serie di percorsi, sia quello immobiliare e istituzionale che quello culturale, che è più specificatamente il mio compito. Nel 2021 i promotori hanno deciso di avviare una modalità di lavoro molto focalizzata sui temi, per delineare dei percorsi su cui poi i diversi attori culturali coinvolti potessero fare le loro proposte. È una sorta di anno zero. Cercheremo in questo primo anno, sperimentale sotto molti aspetti, di tracciare la mappa dei punti cardinali del rapporto fra digitale e cultura e, più in generale, fra digitale e vita contemporanea.

Quali sono i temi principali che approfondirete nel corso del 2021?

Abbiamo quasi concluso il nostro primo ciclo di incontri dedicato alla questione delle trasmissioni, abbiamo indagato il modo in cui il digitale può connettere il passato con il futuro e il ruolo che le tecnologie possono avere nella trasmissione del patrimonio. Lavoreremo dalla seconda metà di aprile sul concetto di contingenza e indeterminazione, una caratteristica della relazione digitale che rappresenta anche un’immagine del mondo molto leggera, relazionale piuttosto che solida. Nella terza stagione lavoreremo sul concetto di vita onlife, su questa nostra doppia appartenenza al mondo virtuale e al mondo reale che ha delle implicazioni anche di tipo politico, giuridico e anche delle implicazioni più generali antropologiche perché ha a che fare con l’assenza e la presenza del corpo nella relazione. Nella quarta stagione, a settembre, ragioneremo sul concetto di gamificazione, sull’alta intensità interattiva che è propria di ogni esperienza digitale.

Potrebbe aiutarci a mettere a fuoco il concetto di Digital Humanities?

Ci sono tante versioni possibili, come con ogni grande etichetta interdisciplinare ci sono tante teorie differenti a supporto. Dal nostro punto di vista lavorare sull’umanesimo digitale significa mostrare le potenzialità dello strumento digitale per la conservazione e l’accessibilità ai giacimenti culturali, al patrimonio bibliotecario, archivistico e in prospettiva anche fotografico. C’è poi un secondo piano più teorico: attraverso le tecnologie digitali si possano pensare modi nuovi, non solo di partecipare ma anche di progettare le opere, ad esempio facendo emergere delle combinazioni fra i sensi che non sono proprie della modalità tradizionale. L’epoca in cui viviamo è profondamente sinestetica, il digitale ci mostra la possibilità di collaborazione fra il tatto, la vista, l’udito, la scrittura: una ridefinizione del sensorio che è rivoluzionaria. Questo va da un lato studiato e dall’altro sperimentato come terreno di innovazione culturale.

In questo ultimo anno è cambiato molto il nostro modo di vivere le relazioni, la tecnologia è diventata uno strumento imprescindibile per metterci in contatto con l’altro. Potremo mai tornare indietro?

L’umanità è dal mio punto di vista incorporata. La stessa conoscenza è embodied: i processi di cognizione sono processi materiali e sappiamo anche che niente può davvero sostituire la socialità diretta. Questo non vuol dire abbandonare tutta una serie di esperienze che si sono fatte attraverso la mediazione tecnologica, cui siamo stati in parte anche costretti e alla quale eravamo anche largamente impreparati. Non sono tecnolatrico ma neanche tecnofobico, non possiamo pensare che la tecnologia sia il nichilismo, l’espropriazione dell’umano. La vera sfida è la cooperazione fra l’umano e l’artificiale, fra l’uomo e le macchine. E sappiamo anche che molto spesso ci siamo fatti abbindolare dalla trappola dell’analogia: abbiamo pensato che l’intelligenza artificiale, la robotica dovessero sempre essere progettati in analogia con le facoltà umane. Sappiamo in realtà che gli algoritmi e l’intelligenza artificiale procedono con delle logiche che non sono riconducibili a quelle dell’intelligenza naturale. Dobbiamo sapere quindi che il proprio dell’umano non verrà mai annullato dall’avanzamento tecnologico. Però è nelle nostre mani.

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