Mattia Selicato e il suo California dreaming. Una storia di videogiochi, impegno, effetti speciali ed amicizia

by Enrico Ciccarelli

Sarà per gli occhiali tondi e l’aria onesta, sarà perché il suo lavoro ha agli occhi di chi scrive la stessa incomprensibilità della magia, ma Mattia Selicato, foggiano ventottenne, VFX Artist, ricorda molto Harry Potter. Però al posto della civetta Edvige c’è un amabile carlino che si chiama, se ho capito bene, Pug, e il suo piccolo e luminoso studio non ricorda neanche un po’ le torri e le scalinate mobili di Hogwarts

Come dite? Non sapete cos’è un VFX Artist? Neanche io. Così gliel’ho chiesto.

«Sono un creatore di effetti speciali per videogiochi. Una competenza molto specifica, che segue criteri e procedimenti molto diversi da quelli dei film o dei cartoni animati, anche se il risultato è in apparenza simile. Per capirci, se in un videogame c’è un personaggio che tira una palla di fuoco, io sono quello che fa la palla di fuoco».

È stato lo sbocco di una tua passione per i videogiochi da praticante, per così dire?

«Sì, ma il percorso non è stato lineare. Per molto tempo ho pensato di fare tutt’altro».

Cioè?

«Mi sono diplomato all’Istituto Alberghiero e sono partito per Londra, con l’idea di lavorare nel campo della ristorazione. Ho sgobbato per un anno in cucina, ma non mi è piaciuto. Così sono tornato in Italia e mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Foggia, con l’idea di perfezionarmi in un’altra delle mie passioni, che è fare l’illustratore».

E poi?

«Dopo cinque anni ho conseguito la laurea e mi sono ritrovato un po’ alla deriva, come tanti ragazzi nella mia condizione. Per fortuna lì ho stretto un’amicizia speciale con Tony Manzi, accomunati dalla passione per i videogiochi. Lui era determinato a lavorare in questo campo, e la sua determinazione mi ha contagiato. È nata fra noi una sorta di solidarietà competitiva. Abbiamo sempre cercato di aiutarci l’un l’altro e allo stesso tempo di superarci».

Che strada hai seguito?

«Innanzitutto quella di studiare. Per capire quali figure fossero maggiormente richieste dal mercato e dove ci fosse la maggiore penuria di risorse qualificate. L’industria dei videogiochi è un mondo complesso e articolato, nel quale bisogna scegliere con cura il proprio segmento».

E poi?

«L’impegno e lo studio. Secondo me non si può pensare di raggiungere determinati risultati ricorrendo esclusivamente all’istruzione pubblica o all’apprendimento passivo. Io ho cercato online vari corsi (uno tra quelli più importanti si chiama VFX Apprentice), me li sono pagati lavorando e ce l’ho fatta. Per continuare ad apprendere è molto importante il legame di comunità che si crea con chi fa il tuo stesso lavoro. C’è molta solidarietà e voglia di condivisione alla base di un VFX Artist».

Con chi hai lavorato? E su quali titoli?

«Ho cominciato con un’azienda canadese, sul titolo Avatar Generations (un videogame ispirato alla serie Avatar, the last airbender, trasmesso da Nickelodeon). Oggi lavoro invece per la californiana Beyond-FX, che realizza gli effetti per la Riot Games e personalmente lavoro al titolo Valorant. La Riot edita fra l’altro League of Legends, che è giocato da oltre 160 milioni di giocatori».

Il tuo è un lavoro di team? O produci per tuo conto?

«Noi creatori di effetti speciali siamo alla penultima stazione della pipeline. Il nostro lavoro avviene necessariamente nel momento in cui sono stati definiti e realizzati tutti gli altri aspetti concettuali di un personaggio (chiamati Agenti in Valorant). Dopo di noi ci sono solo i creatori di effetti sonori. Tuttavia la catena produttiva è molto efficiente e ben organizzata, per cui il nostro lavoro scorre fluido fra un’agente e l’altro, senza intoppi o ritardi».

E la Beyond-FX ti vuole a Los Angeles.

«Sì, mi hanno invitato, ed è un riconoscimento non da poco. Purtroppo non è certo che questo invito possa produrre effetti, perché le politiche protezionistiche di Trump hanno introdotto una sorta di lotteria anche per l’arrivo di persone provviste di professionalità specifica. Quindi potrò andare a Los Angeles solo con un pizzico di buona sorte».

Nel caso tu ci vada, pensi di restarci?

«Difficile dirlo ora. Dal punto di vista della qualità della vita l’Europa si fa preferire, da quello della carriera e delle retribuzioni sono meglio gli Stati Uniti. Comunque è logico che, così come oltre Atlantico c’è il mito dell’Europa, da noi ci sia quello dell’America. Spero di poter prendere il meglio dei due mondi»,

Esiste una prospettiva europea per i videogames?

«Penso più che altro nel mondo indie, delle produzioni indipendenti. È una questione di logiche di scala: i best-seller nel mondo dei videogame si dividono fra Oriente (Giappone, Cina, Corea) e Occidente (Usa). Una produzione italiana si trova spesso limitata sulla cultura di team, e sarebbe necessariamente limitata da bassi budget che a volte scoraggiano figure di alto rilievo professionale». 

In conclusione, Mattia, la vita è un gioco?

«Sì, quindi qualcosa di terribilmente serio e una bella sfida».

Chi sia curioso del lavoro di Mattia trova qui (https://www.artstation.com/artwork/68KPDn)  qualche esempio. Nel frattempo incrociamo le dita perché i suoi sogni possano spiccare il volo. In bocca al lupo. Anzi, come si dice a Hogwarts. Wingardium Leviosa!

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