“South Working – Lavorare dal Sud”, l’idea di Elena Militello: «Ripensiamo le dinamiche occupazionali, creando equilibrio tra lavoro e qualità di vita»

by Michela Conoscitore

Il 2020 ha visto nascere una ribellione gentile a quelle dinamiche che da sempre ‘condannano’ i meridionali ad un destino di emigranti, spesso recalcitranti e malati di nostalgia per la loro terra. Questa rivoluzione si chiama South Working – Lavorare dal Sud ideata da Elena Militello presidente della fondazione no-profit, in collaborazione con Global Shapers e Fondazione Con Il Sud, e lei stessa prima south worker ad essere tornata nella sua Palermo nonostante il contratto la leghi al Lussemburgo.

Tornata in Sicilia a causa della pandemia, la giovane presidente ha pensato di tradurre in un’organizzazione sistematica e collaborativa l’onda lunga dei rimpatri di moltissimi meridionali, giovani e non, che hanno lasciato città italiane ed europee per far ritorno a casa, pur continuando a lavorare in smart working. Stabilitisi al sud si sono accorti che il benessere e la resa sul lavoro hanno subito un incentivo, da qui poi la nascita dell’organizzazione. Inoltre, l’attenzione alla community di South Working è diventata sempre più pressante, poiché questa riappropriazione delle proprie radici sembra non possedere tratti temporanei ma, piuttosto, durevoli nel tempo.

bonculture ha intervistato la presidente Elena Militello:

Dottoressa Militello cosa vi ha spinto a formare un team e dare vita all’organizzazione no profit South Working?

Ho sviluppato l’idea di South Working a fine marzo 2020, durante il lockdown. Sono rimpatriata dal Lussemburgo, dove vivevo e lavoravo nell’ambito accademico, in Sicilia, da cui ero andata via dieci anni fa per studiare e lavorare, prima a Milano e poi all’estero, negli USA, in Germania e Lussemburgo. In quelle settimane ho iniziato a raccogliere esperienze da molti amici e colleghi che lavorano nell’ambito del settore terziario, specie avanzato, e insieme abbiamo delineato la proposta e iniziato a valutare i diversi pro e contro per i diversi portatori di interesse. L’obiettivo principale del progetto è quello di diffondere l’idea e il movimento di opinione per l’accettazione di nuove modalità lavorative. South Working nasce dalla volontà di ripensare le dinamiche occupazionali, consentendo un ampliamento sostanziale dell’offerta lavorativa nel Mezzogiorno con prospettive non più vincolate allo spostamento fisico, ma integrando modalità di lavoro agile che possano soddisfare le necessità aziendali e alti standard di benessere del dipendente. Anche a causa della pandemia, è emersa con sempre maggiore chiarezza la necessità, per coloro in cerca di occupazione, di nuovi stimoli e nuove esigenze, legate soprattutto all’equilibrio tra il lavoro e la qualità della vita. Noi crediamo che il South Working possa essere una modalità capace di rispondere a queste esigenze e anche di contribuire ad arginare il fenomeno della ‘emigrazione forzata’ dal Sud verso il Nord, rilanciando anche le prospettive lavorative del Mezzogiorno e il tessuto economico e sociale.

Senza la pandemia si sarebbe comunque avvertita questa necessità, forse per molti lavoratori del sud inevitabile, che si è poi tradotta nel vostro movimento?

Sicuramente la pandemia ha dato un’accelerazione a un fenomeno che però era già in corso. L’improvvisa attenzione mediatica di questo ultimo anno è legata alla percezione diffusa di un bisogno di ripensare le dinamiche pre-Covid che si sta diffondendo in molti campi. Parlando, in questi mesi, con moltissimi soggetti, tra cui anche seconde generazioni di italiani all’estero o di famiglie meridionali nelle regioni settentrionali, percepisco un grande entusiasmo e una volontà di trarre qualcosa di positivo dall’esperienza tragica di questi mesi, anche restituendo qualcosa alle comunità di origine in termini di creazione di valore e innovazione sociale.

La vostra è un’organizzazione ‘giovane’, quali sono i primi obiettivi raggiunti?

Siamo stati molto soddisfatti dell’interesse quasi immediato che si è manifestato nei nostri confronti. Oltre 500 persone si sono iscritte in un solo mese alla nostra community, che continua a crescere anche grazie alla collaborazione strutturale con la Fondazione Con il Sud. Le nostre pagine social sono seguite da oltre 9.000 persone, non male per una realtà nata da appena un anno. E anche la politica continua a porre al centro della sua agenda il tema del South Working: abbiamo incontrato l’ex Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano e abbiamo presentato le istanze nate dalla nostra community, tra cui l’ampliamento dell’interpretazione della decontribuzione Sud del 30%, includendo anche i lavoratori agili del Mezzogiorno.

Quali ancora vorrete centrare?

Per quanto riguarda i nostri obiettivi a lungo termine, sicuramente come associazione puntiamo a invertire il tradizionale modo in cui si tenta di colmare il divario territoriale tra regioni più e meno sviluppate. Finora i tentativi sono stati incentrati su una successione teorica tra il miglioramento di servizi e infrastrutture, gli incentivi agli investimenti delle imprese al Sud e infine l’assunzione di lavoratori. Tuttavia, questi miglioramenti a servizi e infrastrutture non sono stati realizzati e gli incentivi non sono stati sufficienti ad attrarre investimenti reali e duraturi. L’idea di South Working è quella di partire dai lavoratori, spostando chi lo desidera immediatamente al Sud, iniettando liquidità nell’economia tramite consumi a breve termine e investimenti a medio termine. La componente di necessario sano realismo, a mio parere, risiede nella necessità di puntare a una massa critica di lavoratori che si potrebbero trasferire con contratti di lavoro agile a distanza nei luoghi che preferiscono, valutando caso per caso con i datori di lavoro con quali soggetti possano essere negoziati contratti di South Working, in relazione alle mansioni in concreto svolte, al livello di fiducia da parte dell’azienda e di responsabilità da parte del lavoratore.

Oltre che all’organizzazione avete dato vita anche ad un neologismo, ‘south working’, ma chi sono i South Worker?

I south worker sono lavoratori che desiderano stipulare contratti di lavoro a distanza in via principale. Non necessariamente lavoratori giovani, ma anche più grandi. Molti di loro desiderano tornare a vivere nei loro territori di origine, altri ancora si spostano per il piacere di lavorare viaggiando. Altri potrebbero voler contribuire al miglioramento delle diseguaglianze esistenti, mettendo al servizio della collettività anche il loro tempo e le competenze acquisite anche tramite esperienze di mobilità.

Quali sono i vantaggi per un South Worker nel tornare a Sud?

Tornare o lavorare al Sud, nelle città o nei borghi, per chi lo desidera, rappresenta un vantaggio non solo a livello di benessere fisico e mentale, ma anche economico. Il costo della vita è certamente inferiore nel Sud Italia e favorire il lavoro agile, a nostro avviso, può sviluppare l’ecosistema economico e lavorativo del Meridione, incrementando le infrastrutture e i servizi esistenti o creandone di nuovi.

Su Facebook siete riusciti a creare una vera e propria community, cosa la anima e qual è la sua utilità?

La anima questa diffusa necessità di conciliare il lavoro e il benessere. Grazie ai social possiamo raggiungere un maggior numero di persone e anche indirizzare verso le nostre pagine e i nostri presidi di comunità. Inoltre, i social sono sicuramente utili per creare una rete di south worker, raccogliere le loro storie e rispondere alle loro esigenze.

I cosiddetti ‘presidi di comunità’, gli spazi dove i South Worker possono lavorare in tranquillità, quali caratteristiche devono possedere e come vengono individuati?

I “presidi di comunità” sono spazi di coworking, biblioteche, community hub, spazi pubblici di condivisione e socialità, che possano essere intesi come dei veri e propri luoghi di partecipazione dal basso, collaborazione, innovazione e dialogo intergenerazionale per le comunità locali, nuove e preesistenti. Sono individuati su base sia volontaria che dietro segnalazione dei membri della nostra community. Tutti i luoghi con una naturale dimensione aggregativa, associativa, creativa, innovativa o ancora da scoprire sono dei potenziali presidi di comunità.

Secondo i dati in vostro possesso, qual è la regione del Sud che ha accolto e sta accogliendo più South Worker?

Secondo il rapporto SVIMEZ, sono 45mila le persone che, dall’inizio della pandemia, sono tornate al Sud per lavorare in Smart working. Quantificare la regione che ne ha accolti di più è complesso, visto che l’attenzione al fenomeno è appena nata, ma dai primi risultati dell’indagine si percepisce che questi numeri potrebbero essere solo la punta dell’iceberg. Le piccole e medie imprese, per esempio, sono molto più difficili da rilevare ma si stima che il fenomeno potrebbe aver riguardato fino a 100mila lavoratori. Emerge anche che considerando le aziende che hanno utilizzato lo smart working nei primi tre trimestri del 2020, o totalmente o comunque per oltre l’80% degli addetti, circa il 3% ha visto i propri dipendenti lavorare in south working. Sempre secondo SVIMEZ, l’85,3% degli intervistati andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud se fosse loro consentito, e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Il campione di 2000 lavoratori è composto all’80% da persone tra i 25 e i 40 anni, con elevati titoli di studio, principalmente in Ingegneria, Economia e Giurisprudenza, e ha nel 63% dei casi, un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Quali sono i benefici che il fenomeno South Working sta apportando all’economia del Meridione?

Il South Working contribuisce all’economia locale del luogo in cui i south worker scelgono di vivere, non solo in termini di iniezione di liquidità tramite i consumi ma anche in termini di potenziali investimenti, stimolo all’ecosistema creativo in termini di idee imprenditoriali e di startup e “restituzione” alle comunità.

Posto che la maggior parte delle aziende con cui i South Worker intrattengono rapporti lavorativi sono del Nord, non temete un impoverimento delle aziende locali?

Al contrario, potrebbe esserci invece un arricchimento: partendo dal presupposto che gran parte dei South Worker sono professionisti già altamente qualificati che lavorano per aziende del Nord e i cui profili non avrebbero trovato riscontri nelle offerte di lavoro del Sud, che è il motivo poi dell’immigrazione ‘forzata’ verso il Nord, una percentuale di essi ha cominciato a intessere rapporti di lavoro anche con aziende e realtà lavorative del Meridione. Non bisogna vederla come una competizione tra lavoratori delle aziende del Nord e quelli del Sud, tra ‘autoctoni’ e south worker. Noi richiediamo ai South Worker di impegnarsi a restituire qualcosa alla comunità dove hanno scelto di lavorare, che sia in termini di volontariato oppure di esperienze e competenze che possono mettere a disposizione delle realtà locali.

Michela Conoscitore

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