Trasparenza e levità per l’head office della Fondazione Mies van der Rohe di Barcellona

by Roberto Pertosa

Il tema proposto riguarda la progettazione della Sede Centrale della Fondazione Mies van der Rohe, da concepire in prossimità del Padiglione tedesco dell’Esposizione Universale di Barcellona del 1929, ricostruito successivamente nel 1986.

Tale tema ha portato inevitabilmente ad affrontare tre problematiche di fondamentale importanza:

1. la relazione con architetture miste e con il tessuto urbano;

2. il ruolo del nuovo intervento architettonico in uno spazio della città definito emblematico e rappresentativo;

3. il suo dialogo con una delle espressioni architettoniche meglio riuscite del Razionalismo Europeo.

Le Esposizioni Universali: simbolo dei mutamenti

Le Esposizioni Universali, nate nell’Ottocento come effetto dello sviluppo industriale, erano rapidamente divenute manifestazioni di una nuova realtà economica e sociale, dell’affermazione della borghesia quale classe dirigente, del dilagare dei consumi di massa e del diffondersi dell’oggetto in serie prodotto dall’industria che, con la struttura della società, mutava la realtà stessa delle città.

L’architettura moderna, faticosamente affermatasi attraverso l’esperienza delle avanguardie, è figlia di questa cultura, e non a caso le Esposizioni Universali hanno scandito e accompagnato lo sviluppo e la formazione del nuovo linguaggio.

Nel 1850, all’Esposizione di Londra, il Cristal Palace di Paxton mostra tutte le virtualità estetiche del ferro e del vetro impiegati quali materiali “tecnici”, al di là di problemi inerenti la decorazione e lo stile. Nel 1889, a Parigi, la Galerie des Machines e la Tour Eiffel sanciscono la vitalità della cultura degli ingegneri rispetto all’immobilismo dell’Accademia e dello storicismo e mostrano quali siano le possibilità offerte dalla corretta applicazione di una cultura industriale avanzata.

Allo stesso modo, nel 1929, a Barcellona il Padiglione Tedesco di Mies van der Rohe si pone come momento avanzato della cultura in mezzo a una distesa di edifici tardoecclettici. Questi edifici sono dunque “momenti” di un processo di sviluppo, e hanno costituito uno stimolo verso le incertezze di quella stessa cultura industriale che li aveva prodotti, la quale, per esigenze pubblicitarie e rappresentative, era talora restia a disfarsi dell’accademia e del monumentalismo residui di una cultura superata, ma ancora utili per autocelebrazione di ogni tipo di potere, compreso quello economico.

Confini: contenuti progettuali

Nel Padiglione di Barcellona e in tutta l’architettura di Mies sussiste un elemento fondamentale: il modo di usare la copertura. I grandi tetti aggettanti che Wright aveva mutato dalla tradizione giapponese sposandoli alla cultura dei pionieri, costituivano una sorta di ideogramma riassuntivo dello spazio coperto della casa; al di sotto le pareti sono disposte liberamente e il confine fra spazio interno e spazio esterno è incerto.

Mies affida al tetto un compito analogo di mediazione fra uno spazio esterno che è già coperto e uno interno che è già aperto all’esterno, di elemento riassuntivo dell’edificio.

L’analogia si ferma qui, perché fra i tetti spioventi di Wright e i tetti piani di Mies corre tutta la distanza che c’è fra una cultura per molti aspetti “contadina” e una cultura industriale avanzata. Infatti il Padiglione di Barcellona è una presenza molto forte, nitida, precisa, che non si amalgama con le caratteristiche dell’ambiente, al quale, invece, sembra infondere una tensione polarizzatrice. Uno spazio costruito che non appartiene a un volume. Spazi coperti di mediazione fra interno e esterno, definiti solo da un piano di copertura e da una parete di vetro.

Il “Tetto tecnologico”: soluzione di continuità

La mia proposta progettuale traduce in tal senso la lezione di Mies van der Rohe.

Obiettivo: una vetrina realizzata con il massimo della trasparenza e della levità.

La “serra” doveva essere una pausa di immaterialità. Percezione non solo fisica, non sempre possibile, ma anche e soprattutto concettuale del Padiglione, da ogni luogo interno ed esterno.

Ogni scorcio in funzione di esso, nessun confine, e assoluta soluzione di continuità.

Era necessario quindi concepire una struttura di minimo ingombro visivo al fine, appunto, di evitare di impedire o ostruire la visione del Padiglione nella sua interezza.

E’ nato il “Tetto tecnologico”, caratterizzato da una enorme vetrata con pannelli fotovoltaici e a cristalli liquidi in grado di dosare l’assorbimento di energia durante i diversi periodi dell’anno e del giorno, concepita per soddisfare le esigenze di comfort visivo, igrotermico e acustico limitando l’uso di refrigerazione attiva durante l’estate e la richiesta di calore durante l’inverno.

Un progetto ecologico con “tecniche passive” consente ulteriormente di controllare il clima interno con l’utilizzo di un efficace sistema di schermatura manovrabile, costituito da pannelli frangisole, contro l’accumulo solare.

La struttura copre i tre “magneti” che animano il complesso:

1. lo spazio pubblico, baricentro distributivo delle nuove funzioni, costituito dalla hall, dalla sala polivalente su due livelli, dall’auditorium e dalla “terrazza” occupata dalla caffetteria e dal book-shop;

2. l’area amministrativa, costituita dagli uffici della Fondazione;

3. l’area di servizio, al livello inferiore, composta dagli archivi, dalla biblioteca e dalle sale di ricerca.

HEAD OFFICE OF THE FUNDACIÒ MIES VAN DER ROHE . Montijuic . Barcelona . Spain
© [ Ark! frequency ] architects | Arch. Roberto Pertosa

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