“A piedi nudi sull’erba fina”, l’ironico diario noir di Massimo Russo

by redazione

Non ci avvicineremo mai alla verità finché sapremo parlarne.

Chuang-tzu

Lo scrittore casertano Massimo Russo, psicologo e insegnante ha parlato del suo romanzo “A piedi nudi sull’erba fina” l’altra sera in compagnia dei suoi amici, della commercialista Anna Maria De Martino e di Dalila D’Allocco in Sala Rosa del Palazzetto dell’Arte di Foggia.

Una serata molto riuscita per il suo esordio da romanziere, con una storia che è insieme un diario filosofico, una indagine noir e una discesa agli inferi psicologica. Prima di partire per una vacanza a Budapest un maestro legge sul giornale dell’assassinio di Roberto Buonanno, che sarebbe potuto essere stato un suo alunno.

A noi di bonculture l’autore ha permesso di pubblicare un estratto del libro.

Eccolo.

All’inizio della mia carriera di maestro elementare, ho insegnato per cinque anni a San Gabriele. Città dell’hinterland napoletano, a ridosso della provincia di Caserta, da cui purtroppo provengo, che non rivedevo da oltre sette anni. Contatti persi o smarriti, nessuna occasione più di ritornarci, se si esclude quella avuta un paio di anni dopo essermene andato, quando un impiegato della segreteria mi telefonò per chiedermi se andavo lì a prendere un assegno con un piccolo compenso per una mansione svolta negli anni precedenti o volevo che me la passasse direttamente sul conto bancario. Inutile dire che scelsi la seconda opzione. Perché? È che se c’è una cosa che mi rattrista è quella di fare il resoconto della mia vita a persone che conosco e non rivedo da anni.

Chi è Roberto Buonanno? Un nome qualsiasi, certamente non un mio alunno. Di Buonanno a San Gabriele ce ne son tanti, e io stesso ne avevo avuti almeno tre, ma quello no: come ogni buon maestro me ne sarei ricordato.

Ettore mi chiamò mentre cercavo di rammemorare eventualmente quel ragazzo e mi venivano alla mente, invece, i ricordi dei miei anni sangabrielesi. Di morti, in questo paesone della camorra e del genio, se ne son contati tanti, mentre ci lavoravo e dopo che sono andato via. Compreso il fratello di una mia ex alunna, finito sotto al treno mentre giocava con gli amici sui binari un pomeriggio. Però questo invisibile Roberto, per la giovane età e per come era morto, mi aveva lasciato una lettera chiusa dentro l’animo, che avrei aperto solo al mio ritorno da Budapest.

A Budapest passai tre settimane tutte d’un fiato. Per la prima presi quasi ogni giorno la pioggia, facendo non poche docce involontarie. Poi feci anche bagni volontari in un magnifico complesso, il più grosso e costoso della città, assieme agli amici budapestini, pratici ma sorpresi quanto me dei divertimenti offerti dalle terme. Molte serate le trascorsi a casa di diverse persone, ogni sera andavamo da qualcuno per un party. A causa dello sforzo che feci per parlare inglese, per farmi capire più che altro, dimenticai tutto ciò che lasciavo alle spalle, e sembrava impossibile.

Mi sono anche innamorato in quella magnifica città. Di Irina, una splendida biondina di ventiquattro anni, che parlava senza difficoltà cinque sei lingue, compreso l’italiano. Con lei mi sforzavo di meno per farmi capire, di più per non rendere note agli occhi del suo ragazzo le mie intenzioni. Forse ci sono riuscito. Da lei però ottenni solo un bacio lungo il Danubio, una mattina a un appuntamento. Mi piace ricordare il suo sorriso naturale, spontaneo e la sua impeccabile sincerità. Anche quando mi ha detto, questa volta con non perfetto accento, che non poteva tradire il ragazzo, era una questione di principio. Che dirle? “Me ne vado sulla Váci utca per distrarmi”? Sarebbe stato poco serio. Poi Adam, che capì tutto, mi rassicurò dicendo che nei giorni successivi avrei conosciuto Anna, dalla splendida voce, tra l’altro.

E fu vero! Mi recitava in ungherese le poesie di Attila Jòzsef e io le chiedevo sempre di continuare o di ripetere quella appena letta. Peccato, ci ho pensato dopo, che non ho registrato la sua irripetibile lettura. Ogni tanto la chiamo al telefono per sentirle almeno dire che sta bene e io come sto. Anna era in rottura con il suo ragazzo e ben le son servito per passare dei giorni allegri dimenticando le sue pene. Non so se le sono servito anche come antagonista, ma Adam dice di no. Adam poi, un giorno allegro, un altro triste anche lui per le sue stupide storie affettive. E dico stupide non per superiorità o mancanza di rispetto, soltanto perché tra due ragazze con cui condivideva dei momenti di felicità, era sempre insicuro su chi amasse. È possibile? Io credo sinceramente di no. Ma lui, spesso in lacrime sulle mie gambe, mi assicurava una sera di amare Tereza, un’altra Paola. Non potevo fare altro che carezzargli la testa e, dopo un po’, chiedergli un tè. Sul tè la sua coerenza non difettava, e forse era l’unico campo certo della sua dicotomica esistenza. Figurarsi che l’ultima email che mi ha spedito, poi non so perché non mi ha più risposto, diceva di avere finalmente deciso: sarebbe stato con Tereza, la sua prima donna, a vivere a casa sua, un tantino compiaciuto di dispiacere Paola. Ogni commento lo lascio ai miei ipocriti lettori.

Intanto io uscivo con Endre quando Adam era in crisi. E con lui stavo davvero bene, per il suo umorismo, nonostante il veloce inglese, o per le sue trovate come quella di mangiare del pane buttato sull’erba il giorno della Parade, affamato com’era per aver ballato circa sette ore. E poi preparava le canne divinamente! Non velocissimo come Marco, ma più gustoso.

E, a differenza di Marco, se ne vedeva bene. Una canna o due erano davvero tante in un giorno. Con lui ero rilassato, il senso della vacanza dovrebbe essere questo, tanto da andare al cinema a vedere un film tradotto in ungherese, non capirci nulla e ridere come un demente. Sarà stato per il fumo la birra e i baci di Claudia appena presentatami ma già tanto generosa? Non lo so. Mi piace dimenticare.

Era la sera del giorno del bacio di Irina, bello questo! Mentre Adam mi stava deprimendo nonostante le rassicurazioni, Endre mi diceva che Irina amava il ragazzo e che io ero un divertimento, se vogliamo, ma mi risollevava più dell’amico. Non è quello che si dice ma come. Siamo animali in fondo. E io animale mi son sempre onorevolmente sentito. Se qualcuno mi avesse visto mentre guardavo le bellezze ungheresi per strada, in metro, o sui bus avrebbe davvero dubitato della mia appartenenza alla razza umana. Ma tant’è!

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