“Alda Merini, mia madre”: il racconto di Emanuela Carniti

by redazione

A dieci anni dalla scomparsa della grande Alda Merini, una delle poetesse più apprezzate del Novecento e ancora ora oggi letta e condivisa, l’editore salentino Manni ha appena pubblicato a firma di Emanuela Carniti, figlia maggiore della poetessa milanese, Alda Merini, mia madre” (pagine 208, euro 16.00), un racconto diretto e semplice che tratteggia l’anima umana e artistica della Merini, la sua infanzia, i momenti più bui, gli amori, la diversità e la sua salvezza: la poesia. bonculture pubblica un tratto di questo libro intimo: il racconto delle ultime ore di vita di Alda Merini ricostruite da sua figlia esattamente dieci anni dopo la sua morte.

“Nel 2009 le diagnosticarono un tumore alle ossa. In più era diabetica, e aveva una serie di problemi vari, legati all’età, e chi sa, agli elettroshock e a tutte le terapie farmacologiche che negli anni le avevano somministrato. Nel 2000 aveva subito un intervento all’anca, e da allora camminava con un bastone e aveva sempre maggiori difficoltà a muoversi.

Negli ultimi tempi non usciva più, c’era una signora che andava da lei quotidianamente per badare alla casa e provvedeva a farla mangiare e alle sue pulizie; poi, prima dell’ultimo ricovero, c’era anche una infermiera della Asl che andava a domicilio per la terapia tumorale e le altre che si erano rese via via necessarie.

Era una lotta continua per l’infermiera, perché la mamma rifiutava la terapia; era una lotta continua per la badante, perché secondo la mamma rubava. Ma la mamma ha sempre vissuto male le ingerenze nella sua vita personale, questa è stata davvero una costante. Anche suo marito, e anche noi figlie, in fondo eravamo un’ingerenza.

Io e una delle mie sorelle andavamo a trovarla regolarmente. Ci alternavamo, ed eravamo lì spesso, ma sbrigare tutte le incombenze pratiche, con la salute di mamma che si deteriorava, era complicato, così abbiamo deciso di farla ricoverare.

Lei non voleva ma non c’erano alternative, non potevamo occuparci a tempo pieno di lei, dovevamo lavorare e badare alle nostre famiglie. D’altronde, anche lo avessimo fatto, non saremmo riuscite a somministrarle le terapie necessarie: le rifiutava, e testarda com’era non l’avremmo avuta vinta. Se la mamma diceva che le medicine non le prendeva, non le prendeva.

Così con un atto che a lei è sembrato muscolare e che ha vissuto come una violenza, nell’ottobre 2009 l’abbiamo ricoverata. Sapevo che non l’avrebbe vissuta bene, però speravo che se le avessero fatto una terapia più mirata avrebbe potuto tirare avanti ancora un po’. Purtroppo sono state solo un paio di settimane.

Anche perché pure in ospedale mamma ha mantenuto il suo stile: fumava, nei corridoi e in camera, e non accettava le terapie. Non è il migliore degli atteggiamenti psicologici per stare meglio.

All’ospedale San Paolo c’era un avvicendarsi di persone. Mosca Mondadori racconta che due giorni prima che morisse era andato a trovarla con Silvio Bordoni, e che lei gli avesse chiesto di scaldarla con un phon; poi si era tolta la maschera dell’ossigeno e aveva acceso l’ennesima sigaretta dopo averne tolto il filtro. Bordoni aveva osservato: “Ma signora Merini, non è il caso che lei fumi”, e mamma di rimando: “Caro Bordoni, oramai mi rimane questa sigaretta e il primo bacio di Gesù”.

Poi la situazione è degenerata, io in tutti quei giorni non volevo crederci che fosse in fin di vita, la vedevo con l’ossigeno e la morfina però non volevo arrendermi.

A un certo punto ho capito che stava per andarsene, ho chiamato le mie sorelle e ho detto: “Se volete vedere la mamma ancora una volta, vi conviene venire”. Ci siamo trovate tutte e quattro attorno al suo letto, e allora credo che anche la mamma abbia capito che era arrivato il momento, perché non lo so, non lo so davvero quand’è che ci aveva viste tutte insieme.

Allora con un fil di voce si è messa a cantare una strofa di Porta Romana, che in un verso dice “La gioventù la passa, la mamma muore”.

Un pomeriggio, sarà stato uno o due giorni dopo, l’1 novembre, ero tornata a casa ad Omegna per fare una doccia e prendere un ricambio, mi telefona mio zio Ezio e mi dice che le è salita la febbre, io rispondo: “È un buon segno, vuol dire che il corpo sta combattendo”, e invece dopo mezz’ora mi chiamano per dirmi che è morta.

Allora mi son messa in macchina, le due ore di viaggio in apnea, son rimasta lì la notte, eravamo in tanti, c’erano anche Borsani, Mosca Mondadori, abbiamo recitato un rosario, poi gli altri sono andati via e io sono rimasta lì con lei.

La mattina è arrivata la caposala: “Ci sono i giornalisti che vogliono parlarle”. Io ero così lontana da quello, frastornata, dolente. Sono riuscita a dire due parole. Forse in quel momento, per quanto ne avessi poca consapevolezza, ho sentito cosa aveva lasciato Alda Merini, non solo a me la mia mamma.

Dopo, c’è sempre quella procedura che un po’ distrae, un po’ serve a renderti conto di quello che è successo: preparare mamma, l’agenzia funebre, le pratiche burocratiche. Sono arrivate le mie sorelle. Insieme, nella camera mortuaria, l’abbiamo vestita, nella bara le abbiamo messo una stecca di sigarette, i soldi nella sottoveste, dove li teneva abitualmente, un cappello, una foto di papà, una rosa.

Poi il Comune di Milano ci ha fatto sapere che voleva fare i funerali di Stato. Qualche anno prima mamma aveva incontrato il sindaco, Letizia Moratti, le aveva anche regalato un anello. Ma quella richiesta di funerali pubblici ci ha lasciato di stucco.

Era la mia mamma, e anche una mamma complicata. Non è stato facile, soprattutto in quel momento di dolore, conciliare la mia immagine di lei con quella pubblica, con tutta quella folla che la amava, che era commossa, che soffriva.

La camera ardente fu allestita a Palazzo Marino, per due giorni ci fu un andirivieni ininterrotto di non so quanta gente, dalle celebrità della televisione ai politici, dagli intellettuali ai cittadini comuni, fino a persone che decenni prima avevano abitato nel nostro caseggiato.

Il 4 novembre si tennero i funerali. Quando l’ho vista nel Duomo, nella bara posata sul pavimento, ho pensato a quando si sarebbe voluta far suora: in qualche modo stava lì per terra come se prendesse i voti.

Quando è finita la cerimonia io le mie sorelle siamo salite su una Limousine, loro non volevano sedersi davanti allora mi ci sono messa io, e la gente mi salutava, e io dal finestrino la ringraziavo, erano gesti d’amore per la mia mamma.

Lo sapevo, io, quanto era amata? Come avrei potuto disgiungere l’immagine di mia madre da quella di Alda Merini? In quel momento in cui avrei dovuto iniziare a fare i conti con la sua assenza, imparavo una nuova presenza”.

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