Alfredo Ricciardi, il commissario Spinelli e i sepolcri imbiancati di Foggia. Una recensione con modesto appello antitelevisivo

by Enrico Ciccarelli

Quella del giallo, in Italia, è solo apparentemente storia di narrativa d’evasione. Quando Mondadori lancia la collana la cui copertina identifica cromaticamente il genere, nel 1929, i delitti non possono che avvenire all’estero. Nell’Italia fascista i treni arrivano in orario, figurarsi se può accadere la menoma infrazione dell’ordine costituito. È affare d’Oltralpe o d’Oltreoceano, proprio come le svenevoli commediole romantiche sono affare di un’imprecisata e irreale Budapest. Sotto le occhiute e miopi osservanze della censura di regime passano quindi indisturbati Wallace e la Christie, Philo Vance e Nero Wolfe. Solo nel 1941, quando è suonata l’ora delle decisioni irrevocabili, le pubblicazioni vengono sospese, per frenare il sottile fremito di fronda e insubordinazione che si celava dietro quelle copertine color limone.

E ora? Come mai il giallo dilaga? Diremmo per i motivi esattamente opposti: come ultima trincea del razionalismo, del tentativo della logica di non farsi sopraffare dal caos.  L’enigma, il delitto l’irruzione del Male possono essere frenate, arginate, respinte o rimandate da chi sappia fare uso di coraggio, acume ed empatia in vario modo miscelate. Questo è tanto più vero nel mistery, che va distinto non solo –come è ovvio- dall’horror, ma anche anche dalla crime story e dal thriller. E al mistery  ci pare appartenga il romanzo d’esordio di Alfredo Ricciardi, foggiano di Foggia-Foggia, che pubblica con Tea (casa editrice di prestigio e rilievo nazionali) «Il commissario Spinelli e i sepolcri imbiancati», ambientato proprio nella nostra città e di recente presentato in Biblioteca per «Fuori gli autori» (la rassegna di Magna Capitana e Ubik) con l’autore e una pimpante e bravissima Adriana Pucci.

Non si tratta, per Foggia, di un debutto assoluto: Piernicola Silvis fa agire all’ombra del Cappellone delle Croci il suo Renzo Bruni, e la procace Lolita Lobosco ha indagato dalle nostre parti nell’ultimo romanzo di Gabriella Genisi (che ne medita uno spin-off tutto dauno). Insomma, nella criminalità letteraria la nostra amata città sta rapidamente conseguendo gli stessi discutibili fasti dell’attività criminale reale. Si diceva all’inizio che non è narrativa d’evasione: i polizieschi di fine-inizio millennio sono anche trattati in sedicesimo di critica sociale. Forse che Salvo Montalbano non è –fra le altre cose- un impietoso narratore dello squallore delle classi dirigenti (specie politiche, specie siciliane, ma non solo)? La citata Lobosco non è anche la narratrice-testimone del passaggio dalla vecchia malavita paesana alle nuove spietatezze dei clan e delle cosche?

Anche Nando Spinelli, il commissario venuto in città da Ascoli Piceno, cuore infranto e testa fina, è il vindice di una certa Foggia, delle sue bellezze ruvide e dei suoi atavici difetti. Ricciardi, che ha la ventura di condividere nome e cognome con il detective napoletano visionario e lugubre creato da Maurizio De Giovanni gli presta la sua ironia, e talora il suo sarcasmo di foggiano perbene che vive con disagio la città del vorrei ma non posso, del vento perenne che non riesce a spazzar via sporcizia e cattivi odori. Il delitto che il commissario affronta nella sua prima inchiesta chiama in causa un mondo di parrocchia che assurge, con i suoi sepolcri imbiancati, a metafora della città.

Chi conosce Foggia sa che è luogo farisaico, di perbenismi e conformismi più proclamati che praticati, di passioni smodate e celate, di sorda, talvolta sordida chiusura. Ricciardi, rara fattispecie di ingegnere dotato di un gran senso dell’umorismo, affonda il bisturi in queste piaghe con rammaricata ferocia di amante deluso.

La scrittura è gradevole, il plot ben costruito; facile identificarsi con il corrucciato e antipatizzante Spinelli, quasi automatico convenire sui vizi del luogo (che –intendiamoci- sono facilmente rinvenibili in tanti centri medio-piccoli del Sud). Purtroppo, come ormai avviene per la maggioranza dei libri, anche questo romanzo è in qualche modo proteso a una traduzione cinematografica e televisiva. Inevitabile conseguenza della civiltà dell’immagine che però finisce per amputare l’immaginario.

Che faccia ha Jules Maigret, mentre nella quiete borghese di Boulevard Richard-Lenoir si mette le bretelle? Sarà Gino Cervi, o Jean Gabin, o Bruno Cremer? E Poirot? Sarà Albert Finney, Peter Ustinov, Kenneth Branagh? E così per Sherlock Holmes, Nero Wolfe e compagnia cantante. Ma la televisione ha cambiato le carte in tavola, e Salvo Montalbano sarà per sempre Luca Zingaretti. Ecco, ci piacerebbe che a Spinelli sia risparmiata questa sorte, che Ricciardi ne scriva in modo televisivamente intraducibile, che lasci a tutti noi che amiamo ancora quella discutibile anticaglia che è la lettura la libertà di avere ciascuno il nostro Nando Spinelli personale. Difficile, certo. Ma per un ircocervo come lui, che pratica le opposte discipline dell’ingegneria e dell’ironia, potrebbe essere impresa realizzabile.

Nel video l’intervista ad Alfredo Ricciardi

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