“Amore, morte & rock’n’ roll: le ultime ore di 50 rockstar. Retroscena e misteri”. L’intervista a Ezio Guaitamacchi

by Sara Valentino

Cos’hanno in comune l’Amore e la Morte? Molto più di quello che si possa immaginare; due concetti apparentemente antitetici come ricorda Ezio Guaitamacchi “che cosa c’è di più vitale dell’amore e cosa di più mortale della morte?”.

Il giornalista e studioso musicale nel suo nuovo libro “Amore, morte & Rock‘n’Roll – Le ultime ore di 50 rockstar. Retroscena e misteri” (edito da Ulrico Hoepli Milano) è andato oltre il significato apparente delle parole riprendendo e giocando sulla famosa triade Sex Drugs and Rock’n Roll degli anni ’70, ha usato lo stesso tipo di cantilena inserendo però le parole Amore e Morte e riprendendo l’antica tradizione angloamericana delle Murder Ballad del quale l’autore è un grande appassionato, in particolare di quelle nordamericane.  

Un volume di quasi quattrocento pagine suddivide in sei macro-capitoli.

In genere nei saggi storici l’ordine cronologico è la scelta più logica, però in questo caso volevo raccontare le storie e volevo che avessero dei file rouge; le coincidenze e gli incroci dei personaggi. Ho scritto un capitolo in cui questi legami sono pazzeschi, sono quasi “legami di sangue” riprendendo una canzone di Bruce Springsteen (Blood Brothers, ndr). Ho voluto raggruppare i capitoli per cause di morte, suona macabro lo so, per cui il nome che ho assegnato a ciascuno è il titolo di una canzone in modo che ammorbidisse un po’, o addirittura rendesse più artistico il concetto, perché è il racconto della morte che ho voluto trasferire nei testi.

Nel corso della tua carriera hai scritto molti libri e sei stato autore di vari programmi radiofonici e televisivi, tutti a tema musicale, con una predilezione per la musica rock, la tua grande passione. Attratto sempre dal noir, sin dai tempi di “Delitti rock” su Rai2, in questo libro ritorni sull’argomento ma scavi più in profondità sul concetto della morte, esplori una sfera molto più personale e intima.

Sono ritornato sulla scena del crimine perché il progetto “Delitti rock” è stato un programma televisivo di Rai 2 di dieci puntate che andò molto bene, basato su un altro mio libro che era molto più enciclopedico rispetto a questo, diventato poi anche un programma per la radio della svizzera italiano e uno spettacolo teatrale. Ho già calcato queste scene criminose che riguardavano gli ultimi istanti di vita di questi personaggi, ma questa volta sono andato un po’ oltre. Partendo dal titolo del libro, una della cose che mi ha fatto scattare un’ulteriore visione di tutto, una prospettiva diversa, è stato quando Laurie Anderson (moglie e compagna degli ultimi vent’anni di Lou Reed, ndr) un giorno post mortem di Lou mi raccontava mentre parlavamo delle persone a noi care che sono scomparse, che vedeva la morte in un altro modo come la presa di coscienza, la conferma di quanto amore noi abbiamo voluto alla persona che non c’è più; capirne l’importanza nel momento in cui le cose ti vengono a mancare. Penso che effettivamente sia così, il dolore che proviamo è esattamente proporzionale all’amore che abbiamo avuto. Quindi ho pensato che anche dietro queste vicende, anche quelle più tragiche, più drammatiche e più violente si celassero delle grandi storie d’amore, che tra l’altro ci sono quasi sempre o addirittura paradossalmente il contrario, cioè che l’amore non c’è, è assente e crea quella solitudine inquietante che, in molti casi di quelli che ho raccontato nel libro, diventa quasi complice dell’omicidio”.

Hai un capitolo preferito?

No, ma sicuramente Tears in Haeve, che non a caso ho voluto mettere come apertura del libro, è quello che rende la morte più dolce, a volte davvero commovente, poetica, toccante, artistica. David Bowie trasforma la morte in opera d’arte; c’è il discorso della consapevolezza, Bowie in primis è tra i pochissimi, non solo nella musica rock ma proprio della musica contemporanea. Il termine rock l’ho sempre utilizzato in senso lato, non strettamente legato al genere, tant’è vero che racconto di artisti (da Robert Johnson ad Aretha Franklin, da George Michael a Whitney Houston) che non sono rock però hanno avuto una vita, uno spirito rock, quello che io stesso ho vissuto da ragazzino negli anni ’70 quando la musica aveva una funzione totalmente diversa da quella che ha oggi.

La prefazione del libro è stata scritta da Enrico Ruggeri che pone l’attenzione sulla rockstar che in tempi passati era considerata una figura semidivina; solo la morte ha donato umanità a questi personaggi, ponendoli quasi al nostro livello. Cos’hanno in comune o quali sono le differenze tra le rockstar di ieri e di oggi? Vedi Kurt Cobain o Amy Winehouse.

Non la metterei sotto un punto di vista generazionale, ma come dicevo prima a essere cambiata è la funzione della musica; fino a quindici anni fa era identitaria tra i giovani e tra chi la fruiva in maniera appassionata. Da ragazzino mi ricordo che ci identificavamo in quello che ascoltavamo e ci immergevamo in tutto quell’immaginario: dal modo di comportarci al modo di vestirci, ci abbeveravamo dei messaggi che la musica trasmetteva che erano “rivoluzionari”. Oggi non è più così – a parte i ragazzi che ascoltano la trap, che è paradossalmente la musica più rock di oggi come spirito (poi non discutiamo il livello artistico, i valori e i disvalori, quello è un altro discorso)il rapporto di interazione tra chi quella musica la produce e chi la fruisce è un’altra roba, cioè è un intrattenimento vissuto molto più live che non nell’ascolto passivo del prodotto discografico, se lo vogliamo ancora chiamare così; mentre per noi in quegli anni c’era molta meno possibilità di vedere le cose dal vivo. Noi i dischi li divoravamo, non avevamo altri elementi di informazione. Oggi le nuove generazioni se vogliono studiare questa roba e ascoltare hanno tutto a disposizione per poterlo fare: libri, documentari, filmati, registrazioni, storie e quant’altro; in primis è proprio cambiata la funzione della musica.

Kurt Cobain è stato il personaggio emblematico di quella vicenda, di quel rock alternativo chiamato grunge che era l’espressione artistica musicale di quella che una volta chiamavamo “la generazione x”, la quale vedeva nell’incognita del futuro le proprie inquietudini, il nichilismo; pensiero già derivato un po’ dal punk, dal metal, non a caso il grunge musicalmente era una specie di mashup.

Amy Winehouse secondo me è un personaggio che è fuori da qualsiasi scena musicale, non a caso i suoi riferimenti erano proiettati ai gruppi senili degli anni ’60, sia nel look che nel modo di suonare e tutto era reso moderno e sembrava nuovo a chi non conosceva un cazzo; Ronnie Spector sembrava veramente la mamma di Amy Winehouse. Tentativo di compensazione della fragilità, di cui parla Enrico nella prefazione, o della ipersensibilità degli artisti è il consumo di sostanze prese per attenuare tutto ciò, senza avere la consapevolezza e questo è gravissimo; un conto è Janis Joplin nel 1970, un conto Amy Winehouse, tutte e due parte dello stesso club però diverse. Nel 2011 non è possibile che qualcuno non sappia di quanto facciano male alcune sostanze; a ventisette anni hai un fisico di ferro, sei giovane e il concetto della morte è lontanissimo; ma una che canta che “l’amore è un gioco perdente”, già capisci che c’è qualcosa che non va. Quando sei in cima al mondo attiri anche soggetti che non sono quelli giusti, vivi una vita che non è una vita, una vita surreale; questi artisti qui vivono in una dimensione diversa. Ecco perché il discorso della morte li riporta un po’ più vicini a noi, li riporta a essere più umani, sono e vivono comunque da semidei però muoiono da persone umane, ma rispetto alle persone comuni le loro opere vivranno per sempre quindi in qualche modo loro raggiungono lo status di immortali perché la loro voce non la dimenticheremo mai.

Le coincidenze della vita sono la caratteristica che rende questo libro così avvincente, racconti tantissimi aneddoti.

Le notizie che metto del libro me le hanno raccontate le persone interessate vicine a questi personaggi, l’entourage, le mogli, i mariti; di coincidenze pazzesche il libro ne è assolutamente pieno, pensa a George Michael che ha cantato per anni Last Christmas ed è morto di arresto cardiaco la notte di Natale; Mark Boral che adorava le automobili però aveva il terrore di guidarle e muore nella sua mini guidata dalla sua fidanzata; Ritchie Valens che vinse il posto su un aeroplanino, giocando a dadi, che però si schiantò al suolo poco dopo il decollo. Pensa a Stevie Ray Vaughan che era il Jjimi Hendrix bianco, scampato anche lui a una tossico dipendenza dall’eroina che lo avrebbe portato alla morte; riuscì a ripulirsi, ritrovare l’amore della sua fidanzata, suonare con il suo idolo Eric Clapton. E proprio una sera, dopo aver suonato con Clapton, volendo semplicemente rientrare a Chicago, questi gli cedette il suo elicottero che cadde. Oppure i Cleaner Skinner che pubblicano l’album “Avvolti tra le fiamme” e dopo tre giorni dall’uscita muoiono avvolti dalle fiamme.

Tra queste non può passare inosservato l’incontro tra James Taylor e l’assassino di John Lennon, Mark David Chapman.

Durante un’intervista James Taylor mi raccontò di quest’incontro; la cosa particolare è che in quel periodo lì David Bowie stava facendo uno spettacolo a Broadway e aveva invitato John e Yoko; successivamente si scoprì che anche Chapman aveva comprato un biglietto per quella stessa sera, cercando di stare il più vicino possibile a John e Yoko. Pensa ad un’ipotesi alternativa che io non ho scritto però: pensa se James Taylor sulle scale dell’uscita della metropolitana a New York, dopo che un ragazzo agitatissimo lo aveva fermato e gli aveva detto “mi devi portare da John”, invece di allontanarlo e scappare Taylor avesse detto “ok, ti porto da John”, magari non gli sparava, oppure mentre andavano sparava Taylor; si aprono vari scenari le famose sliding door. Ovvio che Taylor abbia agito come chiunque di noi approcciato da un personaggio che non conosci e in più sei anche Taylor, la prima cosa che vuoi fare è svincolarti e andartene. Ora pensa se quella sera John e Yoko fossero andati a vedere The Elephant Man e magari l’omicidio succedeva lì, non lo so. Queste coincidenze maledette ci hanno privato di ulteriori opere. Se la morte di Bowie avvenuta quando lui aveva 69 anni ci ha sconvolto, è più grave se la morte di un artista avviene in età precoce. Come la Winehouse che ha pubblicato solo due dischi; un’artista a quell’età ha davanti a sé ampissimi margini di miglioramento, perché con quella espressività che aveva sembrava una Billie Holiday formato 2.0, una fine tragica come la sua ma la Holiday ha goduto di una carriera un po’ più lunga.

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