Cent’anni dalla nascita di Cristanziano Serricchio, il poeta della luce. Andrea Pacilli: «La poesia lo metteva in connessione con il mondo»

by Felice Sblendorio

Dalla nascita di Cristanziano Serricchio, il poeta della luce, sono passati esattamente cento anni. Nato a Monte Sant’Angelo il 20 giugno del 1922, Serricchio è stato uno dei poeti italiani più importanti della seconda metà del Novecento. La poetessa Maria Luisa Spaziani scrisse che nel «nel panorama della poesia contemporanea il nome di Serricchio non potrà mancare». Nella sua vita aveva avuto, per dirla con Quinto Ennio, tria corda, tre patrie e tre cuori nel sangue: Monte, San Marco in Lamis e Manfredonia. Le radici garganiche in una vita intera e in ogni singola poesia. Serricchio, in novant’anni di vita, è stato molte cose: preside, assessore, narratore, divulgatore; ma non ha mai dimenticato la sua intima e profonda natura di poeta. Un poeta dalla lirica allusiva, lenta, meditativa: il poeta delle grotte e degli ulivi, del segreto e della luce.

A cent’anni dalla sua nascita, per rispondere a una domanda contenuta in un suo scritto – «Che resterà di te, di me, di quest’ora che non cede al tramonto?», Andrea Pacilli, editore e nipote di Serricchio, ricorda il lessico familiare, il privato e i tratti meno raccontati di questo poeta di slanci e contemplazioni esistenziali.

Pacilli, Serricchio era suo zio, una personalità importante della sua famiglia. Da dove parte questa storia?

La mia famiglia materna abita, a Manfredonia, da ormai ben più di cent’anni nel palazzo di Via Campanile, che si affaccia sull’Arco Boccolicchio e prende il nome da mio nonno materno: Donnamaria. In quel palazzo medievale, uno dei pochi sopravvissuti al sacco dei Turchi, si sono consumate le vicende di cinque generazioni familiari. La caratteristica principale di questo falansterio era che le figlie dei miei nonni, sposandosi, vi rimanevano a dimorare portando con sé i mariti i quali, integrandosi con il vissuto familiare e del palazzo, si associavano assumendone gli usi, i costumi, i modi, le tradizioni e la personalità. Quando mio nonno Donnamaria, avvocato e comunista, dopo le vicende e le velenate del ventennio fascista morì inopinatamente nel 1947 a 64 anni, un giovanissimo Serricchio, originario di Monte Sant’Angelo e residente a San Marco in Lamis, aveva fatto appena in tempo a chiedergli e ricevere la mano della primogenita, Delia. Cristanziano era un po’ democristiano e Delia contava undici anni in più di lui, ma l’avvocato Donnamaria oltre che progressista sapeva essere realista, e credeva nell’amore.

Comincia così la vita sipontina di Serricchio.

Si sposarono nel 1948, lui 26 anni e lei 37. Il giovane Serricchio nell’ordine gerarchico degli associati familiare andò, quasi naturalmente, a prendere il posto di “primus inter pares” incominciando così la sua vita sipontina. Cristanziano e Delia si stabilirono nella casa che dava sul giardino cinto dalle mura medievali e piantarono un’araucaria proprio di fronte al balcone della camera da letto. Delia suonava il piano, Cristanziano studiava, insegnava, scriveva, si apprestava a pubblicare la sua prima raccolta di poesie, mentore Oreste Macrì, ed a inventare, fra le altre cose, l’Istituto Magistrale Roncalli. Serricchio diventò manfredoniano, e a Manfredonia cominciò a diventare Serricchio.

Grazie a Serricchio nacque la sua famiglia: è così?

Quando Cristanziano conobbe un giovane docente del Magistrale, tuttofare e montanaro di origine come lui, e come lui già abbastanza sipontino da capire che la vita è l’arte dell’incontro, lo elesse a suo braccio destro e se lo portò a casa, dove a pranzo sedevano regolarmente le sorelle di Delia non ancora maritate. Mio padre e mia madre si conobbero così: si sposarono, andarono ad abitare nell’appartamento affianco sul pianerottolo e nacque il sottoscritto, penultimo dei nipoti, che Cristanziano e Delia battezzarono regolarmente secondo il rito di santa romana e sipontina Chiesa cattolica.

Tratti sconosciuti della personalità di Serricchio erano l’umorismo, il paradosso, l’ironia.

Sicuramente. Vi racconto un episodio che riassume questa sua arte. Nel 1971 a Manfredonia esordì il costume deprecabile del furto con scasso in appartamento. I ladri precursori di questa moda pensarono bene di esordire proprio a casa mia. Quello che era stato “il castello” che nemmeno i manipoli fascisti avevano violato, fu banalmente penetrato da due ladri di galline tramite una porta sul terrazzo. Mio padre si svegliò nel pieno della notte con un estraneo ai piedi del letto, si lanciò all’inseguimento armato di doppietta giù per le scale. Nei miei sfumati ricordi d’infanzia vedo, la mattina del fattaccio, mia madre piangente, i tavoli e le sedie riverse per terra, i militi impegnati nel sopralluogo e, nel mentre, irrompere in casa il preside Serricchio vestito non so come e munito di due coltellacci da macellaio e, credo, di una schioppetta a tracolla, intimando tutti, anche ai militi, di consegnargli i manigoldi: ci avrebbe pensato lui. Cristanziano sapeva stupire. Il suo umorismo sapeva andare dal lazzo tipico della commedia dell’arte ad uno “spirito” all’inglese a tratti siciliano, con quel motto proprio dei Montanari doc, ma giocato sul filo intelligente dell’ironia senza aggressività. Il preside Serricchio aveva il gusto del paradosso, e per lui era, questo, arma di umana seduzione ed elemento integrante della sua cultura rinascimentale, di intellettuale del Rinascimento al quale nessuna branca del sapere e dell’arte è preclusa, e dove il sapere è tutt’uno con il fare. Prosa, poesia, teatro, pittura, disegno, fotografia, storia e ricerca documentaria, filosofia, archeologia, antropologia, e via dicendo: potevano mancare il moto dell’animo che punta all’illusione della leggerezza e relativo esercizio? No. Anche perché, d’altro canto, quando incominciava a stare zitto, stava zitto veramente.

Non solo leggerezza, infatti. In molti ricordano un lato autoritario di Serricchio, soprattutto del Serricchio preside.

All’istituto Magistrale la stanza del preside Serricchio era, e si capiva subito, un luogo a parte: anche solamente avvicinarsi era impegno serio, si abbassava la voce, e persino i suoi collaboratori più stretti prima di entrare bussavano e schiarivano la voce. Quando mi capitava di entrarci, per salutarlo, bussavo, chiedevo permesso e mi incamminavo: lui era lontano, seduto alla scrivania e scriveva. A me sembrava un lungo cammino, e più di una volta credo di aver detto: «signor preside, ciao». Lui alzava la testa e sorrideva, io gli chiedevo cosa stesse scrivendo e lui me lo raccontava in maniera dettagliata ma sintetica. Qualche volta mi sono trovato nell’istituto mentre il preside Serricchio era in uscita dalla sua stanza. Ricordo il bidello affacciarsi sulla prima rampa di scale e gridare: «il Preside!». A quel punto c’era il fuggi fuggi degli studenti, i bidelli riconquistavano i loro posti anche se ci erano già, le professoresse si aggiustavano i capelli e i professori la cravatta. E restavano fermi dove stavano. Poi appariva il preside, e se la sua apparizione era dettata da un motivo positivo, “toda gioia” davvero per tutti, ma, se il fatto era negativo, io me ne andavo anche se non c’entravo niente. Diciamo che quando si arrabbiava sapeva essere all’altezza dei suoi concittadini garganici.

Dismessi i panni da preside, com’era Serricchio da poeta? Il suo rapporto con la poesia era viscerale?

Dopo che il preside Serricchio era andato in pensione, era solito dedicare tutta la mattina alla scrittura, e la scrittura della mattina era quella conclusiva: la lucidità mattutina era proficua e gran parte delle sue poesie lì prendevano forma definitiva, dopo che aveva preparato il caffè nel cucinino che dava a sudest, sul giardino e sull’araucaria, che si riempiva di luce con il sorgere del sole. Dopo aver concluso il testo, lo leggeva a Delia. E lì capiva se fosse stato all’altezza di sé stesso. Quando il responso era positivo, spesso attraversava il pianerottolo e veniva a casa nostra. Suonava il campanello, se la porta era chiusa; andavo ad aprire e lo trovavo con i fogli in mano, e aveva la faccia soddisfatta. La poesia davvero lo metteva in connessione con il mondo. Si sedeva sulla sedia del tavolo tondo avendo a sinistra il balcone che dà sull’arco Boccolicchio, e diceva: «Ho scritto una nuova poesia. Ascoltate». Leggeva i versi e, quando finiva di leggere, poi rimaneva in silenzio: non credo si possa commentare una poesia, e il silenzio bastava. Dopo la morte di Delia, la mattina, le sue poesie nuove le leggeva a mia madre. Era diverso, per lui, e anche per noi. Ma per lui ogni poesia era davvero una nuova poesia e, soprattutto, una novità: come se fosse stata la sua prima e più nuova poesia.

Nella vita di Serricchio, oltre alla scuola e alla poesia, c’è stata anche la politica: dal 1962 al 1968, infatti, fu assessore alla pubblica istruzione e alla cultura del Comune di Manfredonia. Quali furono i punti di forza della sua esperienza politica?

Cristanziano Serricchio è stato assessore alla cultura del comune di Manfredonia per sei anni: dal 1962 al 1968. In quel periodo, fra le altre cose, il territorio di Manfredonia ha visto: la prima sistemazione della biblioteca comunale e dei fondi fino ad allora custoditi, i primi scavi organici di Grotta Scaloria ad opera del professor Santo Tiné, la donazione, da parte del Comune di Manfredonia allo Stato, del Castello svevo angioino affinché diventasse Museo Nazionale e si instaurasse il parco archeologico; il rinvenimento e il recupero da parte del professor Silvio Ferri delle stele daunie. E poi, gli ipogei di Scoppa, il centro di cultura Bellucci, dove si faceva teatro, ed il gruppo speleologico sipontino, ed i Carnevali dell’istituto magistrale, e altro ancora. Nel corso di quegli anni i rapporti con il mondo accademico e universitario hanno portato a Manfredonia i migliori nomi europei dell’archeologia, della letteratura, della cultura, da Tiné a Palma di Cesnola, da Pallottino, a Diego Valeri, da Oreste Macrì a Ferri. Serricchio raccontava che decise di donare il castello allo Stato, sostenuto da Tiné e da Ferri, quando gli riferirono che alcuni imprenditori edili avevano fatto un sopralluogo nella piazza d’armi con l’obiettivo di capire quante palazzine si potessero ricavare. Lavorò nottetempo, nella solitudine del municipio, per produrre i documenti necessari alla donazione, ed evitare lo scempio. Uno a zero. Nel 1968, alle elezioni politiche, la democrazia cristiana non lo candidò al Senato, eleggendo un altro “amico”. Pazienza.

Dopo anni, come considerava quell’attività?

Qualche mese prima di morire, quando la candidatura al Nobel proposta dalla regione Puglia era nell’aria, Serricchio ci disse: «Forse, quegli anni di impegno amministrativo sono stati rubati alla poesia. Che dici?». Risposi che sì, forse aveva ragione, ma li aveva recuperati bene. Ora so che anche quegli anni hanno fatto parte della sua opera; i suoi studi, i suoi scritti, la sua arte, hanno regalato al territorio e ai cittadini di questa terra un’identità concreta. Prima di Serricchio il territorio sipontino, e la Daunia, erano una terra che viveva immemore nel presente al di fuori della storia; dopo Serricchio questa terra ha scoperto di esistere e di avere un posto nella Storia e nella Letteratura, e di avere diritto ad un futuro.

Nella vostra casa di cosa si parlava?

A casa, si faceva il resoconto di queste avventure, e per me i nomi di Silvio Ferri, Santo Tiné, Palma di Cesnola, e tanti altri archeologi, poeti, studiosi, erano nomi di eroi. Ho sempre pensato, quand’ero bambino, che le stele daunie e grotta Scaloria fossero questioni di famiglia, e che le due basiliche, e gli ipogei, fossero un’estensione dell’arco Boccolicchio, e che questo era il centro della cultura europea. Quando qualcuno diceva di non conoscere le stele daunie, mi offendevo. Serricchio ha sempre sperato che l’amore per questi beni di tutti si accendesse in ogni cittadino, che avesse una dimensione familiare. Una mattina, fine anni 70, mi svegliai alle urla che venivano giù dall’arco Boccolicchio. Serricchio e mio padre stavano litigando col proprietario di un “basso” che aveva incominciato a piastrellare le pareti del mignale. All’epoca sembrava assurdo parlare di salvaguardia dei beni paesaggistici, urbanistici, culturali, di custodia del centro storico. Ma Serricchio era anche ispettore onorario della soprintendenza: due a zero; e che cavolo!

Suo zio amava esplorare, scoprire, viaggiare. Ricorda alcuni momenti di quei suoi viaggi?

Mio padre, fino a quando ha potuto, ha seguito Serricchio in tutte le sue avventure. Al vento di Scannamugghiera, a Monte Saraceno, in gita scolastica in Germania, nelle fondamenta della basilica di Siponto, nel guano degli ipogei Capparelli, nella polvere alla ricerca delle stele insieme a Silvio Ferri, in quella degli archivi napoletani, alle premiazioni mentre giocava l’Italia contro l’Argentina, e in tanti altri posti e studi. Anche da solo, poi, Serricchio ha continuato a muoversi comunque. Parecchi anni fa, non avendolo trovato a casa, lo chiamai sul cellulare: era in Bulgaria! Cosa facesse in Bulgaria a ottantasei anni non lo capii bene, mi pare fosse sulle tracce dell’apostolo Tommaso.

Perché la grande sfida di Serricchio, oltre il suo inestimabile patrimonio letterario e poetico, fu proprio la scuola?

Io non capivo una cosa: perché all’istituto Magistrale, gira e rigira, alla fine promuovevano quasi tutti, e perché io – che facevo il classico – non potevo sgarrare a scuola mentre un sacco di gente veniva promossa lo stesso. C’è voluta una laurea in filosofia per capire il grande progetto sociale che era l’istituto Magistrale Roncalli, voluto e fondato da Serricchio, lui che poteva andare dove voleva. Non un scuola per pochi eletti, per ben nati, per figli di papà, per élite che dovevano comandare, per gente con la puzza sotto il naso, non una scuola per “lei non sa chi sono io”; non una scuola che vuole selezionare, escludere, che punta il dito, che decide chi ha diritto di crescere e chi no. Ma una scuola per la gente, una scuola che punta a includere e non ad escludere, che punta a tenere dentro e non a mettere fuori, che si preoccupa se una ragazza una certa mattina non è venuta in classe, e perché, e cosa è successo, e se la va a prendere, e la tiene in classe. Una scuola che pensa che è meglio educarne tanti piuttosto che istruirne pochi. Una scuola in cui si cresce se si scresce tutti insieme, dove le donne sono importanti, che guarda all’Europa, che propone, progetta, che non si limita ad amministrare l’esistente ma interagisce con il mondo, ospita intelligenze, esperienze, se le va a cercare. Questa era la scuola secondo Serricchio; questa è la cultura, secondo zio Nino. Tre a zero. Volete continuare?

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